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Videointervista

Philippe Duboÿ
architetto, storico dell'arte e dell'architettura

luogo: Verona, Museo di Cartelvecchio
data: 23 novembre 2002
intervista di: Guido Beltramini, presente Paola Marini
durata: 00:42:26

biografie: Philippe Duboÿ, Guido Beltramini

Guido Beltramini [G.B.] Quando hai cominciato a lavorare all’archivio Scarpa?

Philippe Duboÿ [Ph.D.] Subito dopo un mio viaggio a Palermo, nel Natale del 1978 (Scarpa era morto da poco), ho proposto di fare l’inventario della sua biblioteca; poi, nel febbraio del 1979, ho cominciato a lavorare all’inventario dei disegni.

 

G.B. Dov’erano conservati questi materiali?

Ph.D. Ho cominciato a lavorare nel suo studio di Vicenza durante le vacanze di Natale. Tobia aveva già l’idea di custodire i disegni nelle famose cartelle che poi usammo a Trevignano. Non ricordo se c’erano anche i primi progetti, non credo ci fossero. So che un giornalista locale doveva fare un libro e molti disegni, credo circa mille, li aveva lui: nell’archivio mancano infatti quasi tutti i disegni del negozio Olivetti, della Fondazione Querini e del museo di Possagno.

 

G.B. C’erano dei modelli?

Ph.D. Sì.

 

G.B. Com’erano organizzati i fogli?

Ph.D. Nell’archivio, ormai a Trevignano, c’erano grandi cartelle di legno con dentro i disegni.

Da Parigi mi chiesero di fare un numero speciale di «AMC» sui progetti di Scarpa degli anni Settantaper il  mese dopo; mi accorsi che richiedeva un anno di lavoro, allora coinvolsi Patrice Noviant, che conoscevo da un sacco di tempo e lavorava nella redazione di «AMC», e l’altro redattore della rivista, Jacques Lucan. Potevamo contare anche sull’aiuto volontario degli architetti che avevano lavorato con Carlo Scarpa: certi ci hanno dato i loro materiali subito – penso a Franca Semi che si è presentata con un catalogo ragionato dei disegni della Fondazione Masieri, o al materiale di Castelvecchio che ci è arrivato senza difficoltà –, altri erano più diffidenti. Dal lavoro per la rivista «AMC» ho dato inizio alla sistemazione dell’archivio.

 

G.B. Qual era il tuo obiettivo?

Ph.D. Volevo pubblicare i lavori di Scarpa per mostrare che c’era un altro modo di fare architettura; in quel momento non avevo – come Tobia – la preoccupazione che i disegni andassero perduti, il mio era un interesse da storico. Non sono mai stato un “tafuriano” duro e puro, non m’interessava la professione o l’identità dell’architetto dal punto di vista teorico; in Francia allora la progettazione viveva un momento di crisi e per me Carlo Scarpa rappresentava un’alternativa possibile al mestiere “liberale” dell’architetto. Rispetto all’idea che fosse una professione borghese, che ci fosse bisogno di uno studio, per me Scarpa rappresentava l’ideale, possibile, di un futuro modo di fare architettura. Scarpa rappresentava la possibilità di attraversare la crisi del Movimento moderno assumendola totalmente in un rapporto soggettivo, personale, che si è rivelato molto efficace. In questo per me Carlo Scarpa è stato più incisivo del pensiero negativo di Tafuri.

 

G.B. Come avete ordinato i disegni, avete steso degli indici?

Ph.D. Li abbiamo divisi per data. Massimo Giacometti, un amico che in quel periodo era disponibile a farsi carico del lavoro d’archivio, è stato assunto a tempo pieno da Tobia, mentre io lo facevo da volontario.

 

G.B. Che cos’erano i disegni per voi?

Ph.D. Io li guardo da storico. Per me era un problema lavorare, da storico, solo con i disegni. Adoro lavorare sui materiali d’archivio, l’avevo fatto per Lequeu e, quando ho conosciuto Scarpa, anche lui mi ha spinto a lavorare sui documenti, in quel caso sui rilievi del vecchio cimitero nel primo Quaderno della tomba Brion che sono il fondamento storico di quel progetto. La storia è il fondamento del progetto, quindi se vuoi leggerlo devi partire dai documenti e non da un’idea preconcetta dei documenti; so che non è facile. Dopo aver lavorato su Lequeu e su Le Corbusier, mi chiedevo «cosa faccio con questi disegni?». Credo dipendesse dalla mia formazione con Manfredo Tafuri: ci spingeva anche lui verso i documenti, mi pare…

 

G.B. Quando incontrasti Scarpa la prima volta?

Ph.D. A causa del mio lavoro su Lequeu i miei rapporti con l’Istituto di storia dell’architettura a Venezia erano problematici, soprattutto con Tafuri. Poi vinsi una borsa di studio al momento dell’uscita, nel 1975, del numero di «L’Architecture d’aujourd’hui» sull’Italia per il quale mi venne richiesto di lavorare su Carlo Scarpa. Nel 1973 o 1974 andai a Vicenza a intervistarlo. Lo conoscevo già, lo avevo incontrato a casa della mamma di Alberta Bianchin, la sorella di Afra (che avevo conosciuto nel Natale 1972), e avevo fatto un esame con lui all’Università. All’esame mi disse – come avrebbe ripetuto sempre – che somigliavo a una figura di Cima da Conegliano e chiese se gli avevo portato del Sauternes e del foie-gras: purtroppo no! Mi diede trenta, non trenta e lode. Non avevo fatto nessun progetto; come spesso accadeva, ero stato accompagnato da Manfredo Tafuri.

 

G.B. Che impressione avevi di Scarpa come uomo?

Ph.D. È stato un incontro piuttosto piacevole. Essendo io il moroso di Alberta, lui era curioso di conoscermi, in pratica fu la relazione che avevo con lei a permettermi di conoscere Carlo Scarpa. Avevo visto il suo carteggio con Alberta ed ero rimasto colpito dalla generosità di Scarpa nell’assumersi il ruolo di padre (lei era orfana di padre). Lei lo accompagnava spesso e Scarpa le scriveva lettere o cartoline ovunque andasse: aveva con lei un rapporto amorevole e vegliava sulla sua femminilità. A un certo punto mi chiese «Con chi lavori?», e io «Con Manfredo Tafuri». «Ma è uno stronzo!», mi aggredì. Finita la prima intervista, durata un anno, mi chiese se io e Alberta non avessimo ancora litigato.

 

G.B. L’intervista è uscita?

Ph.D. No, mai. Dovevo pubblicare qualcosa sulla tomba Brion, gli portavo i miei primi scritti su Lequeu e la volta dopo lui mi parlava di quelli senza che io riuscissi mai a portare il discorso sulla tomba. Per la pubblicazione avevo un fotografo, Sandro Zen, ma rimaneva il problema dei disegni: come fai a chiedere subito i disegni originali in prestito a un architetto come Carlo Scarpa? Alla fine fu lo stesso Scarpa a propormi di darmi dei disegni e li tirò fuori: è stato bellissimo. C’era una pianta incompleta e mi disse «finiscila tu». Io ero terrorizzato, misi dei numeri grandi sulla pianta perché si capisse la legenda, e lui quando li vide disse «Chi ha messo questi numeri? Sono brutti!».

 

G.B. Che gente c’era intorno a Scarpa in quel momento?

Ph.D. Non ho mai visto nessuno a parte le persone di famiglia. Rovetta lo conobbi a Parigi alla mostra dei lavori di Scarpa curata da Luciana Miotto che aprì in contemporanea con l’uscita del numero monografico di «L’Architecture d’aujourd’hui», tanto che per l’inaugurazione della mostra aggiungemmo i disegni della tomba Brion pubblicati sulla rivista.

 

G.B. Quanto hai lavorato sull’archivio?

Ph.D. Fino alla mostra del 1984, forse poco più avanti perché Portoghesi decise di aggiungere il progetto di Carlo Scarpa per il Museo Picasso alla mostra della Biennale di Venezia del 1985 nella cappella dell’Ospedale della Salpêtrière a Parigi, mentre noi in Francia stavamo concludendo una ricerca sul disegno di Scarpa come strumento di lavoro basata su tutti i disegni per la tomba Brion dell’archivio.

 

G.B. Come nasce la mostra di Vienna?

Ph.D. È stata la mia rivincita su Venezia. Quando fai un lavoro di classificazione, come quello fatto con Massimo Giacometti, alla fine non guardi quasi niente dei disegni. Dopo mi rimase l’idea, che Scarpa mi aveva sempre detto, che Onorina Brion dovesse finanziare un libro di fac-simile dei disegni per la tomba. Pastor, quando era rettore, mi aveva proposto di fare una mostra monografica completa ma preferivo circoscriverla alla tomba Brion: per me ogni documento va lasciato nella sua integrità, non potevo fare una selezione...

 

G.B. Come decidesti di impostare la mostra di Vienna?

Ph.D. Peter Noever propose a Tobia di fare una mostra; Tobia propose che fossi io a farla e Peter accettò. Accettò anche la mia idea di dedicare la mostra a tutti i disegni della tomba Brion. Nel comitato scientifico, che non era stato scelto da me, c’erano Manlio Brusatin, Tobia, Nini, che però non è mai venuta, e altri. La mostra doveva essere il catalogo ragionato dei disegni della tomba Brion e di tutti i libri della biblioteca di Scarpa. Questo perché avevo sempre avuto l’idea che la biblioteca fosse lo strumento della cultura di Scarpa, il quale non è che fosse sempre in viaggio. Per esempio credevo che le architetture di Perret o di Le Corbusier non le avesse mai viste prima di venire con noi a Parigi. A me piaceva molto questa cultura che era insieme 1. architettura e 2. letteratura, in particolare il rapporto fra Camerino e Raymond Roussel (trovai un articolo di Camerino su Roussel del 1935) e fra questi e la tomba Brion: chiesi a Scarpa se avesse letto Roussel e lui disse di sì, cosa che mi stupì. Ne parlo nel catalogo Die andere Stadt dove ho proposto una rilettura di un mio primo articolo su Carlo Scarpa.

 

G.B. Quanto tempo hai lavorato alla mostra?

Ph.D. La mostra è del 1989, mi ero messo a lavorare all’archivio almeno tre anni prima: avevo fatto portare tutti i disegni della tomba da Trevignano al MAK, dove mi avevano dato una stanza e si facevano carico di tutte le riproduzioni fotografiche per il catalogo.

 

G.B. L’architetto Umberto Riva dice che è stata la mostra più bella che abbia mai visto su Scarpa. Com’erano esposti i disegni?

Ph.D. Non so dirti com’era la mostra, era una scommessa, era anche un po’ angosciante, pensavo potesse diventare di una noia infinita con tutti quei disegni. Li avevamo esposti su due piani, a cominciare dal Quaderno con i rilievi per continuare secondo una sequenza ragionata; era la mia idea dello sviluppo del progetto di Carlo Scarpa che avevo distinto in capitoli: pianta generale, muro di cinta, e a seguire ogni elemento della tomba. Avevo chiesto di misurare tutti i disegni per controllare la linearità della mostra. Peter aveva fatto dei tavoli da disegno (Rovetta dice «brutti») che io trovavo stupendi perché erano anonimi: i piani poggiavano su banali cavalletti di legno ed erano larghi abbastanza da far vedere i disegni da entrambi i lati. I fogli erano sotto vetro, avevo chiesto un feltro molto grosso alla Beuys – avevo preso da lui l’idea – da inserire tra i tavoli e i vetri.

 

G.B. E la luce?

Ph.D. La luce era naturale, molto bella; l’allestimento della mostra fu curato dal giapponese Hiroyuki Toyoda, uno degli ultimi collaboratori di Carlo Scarpa.

La mostra non era come la vostra, io non avrei osato né avrei mai pensato di costruire un’architettura di Scarpa in scala 1:1 da mostrare al pubblico. Il museo di Vienna è un rettangolo con una sala gigantesca al centro, e Peter fa sempre un oggetto di richiamo per i visitatori all’entrata. In questo spazio lui voleva un pezzo di Carlo Scarpa. Siccome avevo in mente la famosa conferenza di Vienna Può l’architettura essere poesia? pensai subito al padiglione della Poesia di Montreal: doveva essere un’approssimazione perché non c’era come là un vetro, la visione fra interno ed esterno del padiglione era sbagliata. Però – mi son detto – il pavimento di Piero della Francesca può esser fatto dalla stessa ditta di allora e la copia del David può farla su calco il museo di Firenze. La cosa importante nel padiglione di Scarpa era il passaggio dal pavimento alla statua, che Zanon conosceva perfettamente. La possibilità di errore era poca. Nell’ambiente del museo l’unica aggiunta fu il pavimento Zen con sassi di marmo. Poiché il piano era rialzato, in prospettiva dall’entrata del museo vedevi il culo del David, questa fu un’idea di Peter Noever!

 

Paola Marini: Quale fu la reazione alla mostra?

Ph.D. Buona: uscì un articolo su «Domus» dove si diceva che era una mostra che gli italiani non avrebbero mai visto. Avevo avuto un sacco di impedimenti per il fatto che i disegni erano vincolati – li avevano fatti vincolare Mazzariol e Dal Co – quindi rimasero due mesi fermi alla frontiera. Poi c’era l’interdizione di Tafuri dal far pubblicare cose mie o parlare di me: per questo quando sono venuti i rappresentanti delle riviste italiane a vedere la mostra, c’era ad esempio un giornalista di «Casabella», non ho voluto pranzare con loro.

Nel museo la mostra era disposta bene: c’era un percorso a “U” al piano terra e in alto la stessa cosa. Sono 4.000 metri quadri di museo, rischiava di essere indigeribile ma non lo era per niente. Lì ti accorgevi di quanto sia vero che il disegno di Scarpa ha un potere di comunicazione incredibile anche per la gente comune. L’inaugurazione era cominciata alle 11 di mattina e a mezzanotte la gente era ancora lì, non avevo mai visto niente di simile: in quel momento ho capito di aver vinto. Poi sono arrivati Tobia e Afra e mi hanno detto «è meraviglioso»; erano sotto choc perché la mostra era totalmente emotiva, da piangere. Lo stesso quando arrivò la Nini: non voleva entrare perché non aveva ricevuto l’invito, poi si è messa a piangere dicendo «c’è tutto lo spirito di mio marito». La mostra doveva essere itinerante, ma durante la notte rubarono quattro disegni.

 

G.B. Come fu la ricezione della mostra in Italia?

Ph.D. Buona. Gregotti la pubblicò su «Casabella» con grandi disegni; non credo che Tafuri venne mai a vedere la mostra. In quel momento a Vienna c’era la mostra su Loos all’Albertina, vi incontrai Sergio Los che mi disse «che palle la tua mostra, è troppo grande!». Umberto Riva, che incontrai in un’altra sede della mostra su Loos con una signora Castiglioni e un architetto austriaco che vive a Milano, mi disse «la tua mostra è meravigliosa», e di lui mi fido. Fu un’opportunità per fare una mostra diversa.

Non sono più tornato all’archivio, non mi sono occupato del rientro dei disegni da Vienna. Sapendo che la mostra sarebbe andata a Tokyo, al Guggenheim di New York, a San Francisco, vedevo la mia carriera che ingranava. In più avevo una certa angoscia a causa della fragilità dei disegni, li avevo manipolati molto per la mostra, forse non era un bene. Vienna è una città di provincia, con questa mostra il pubblico del museo raddoppiò, ma non vuol dire niente.

 

G.B. Alla fine, dopo Vienna la mostra non venne replicata.

Ph.D. No, i disegni sono tornati da Tobia.

 

G.B. A Tobia è piaciuta la mostra?

Ph.D. Sì, puoi chiederglielo, era meglio che a Venezia.

 

G.B. Non hai avuto alcun ruolo nella mostra di Venezia?

Ph.D. No. Tafuri e altri all’Istituto di Venezia dicevano che io bloccavo l’archivio di Trevignano, che lo consideravo di mia proprietà, ma era falso. Decideva Tobia a chi mostrare l’archivio, ne aveva il diritto. Portoghesi e un altro architetto chiedevano con insistenza a Tobia di poter fare una mostra su Carlo Scarpa ma lui rifiutava sempre. Poi, forse spinto da Mazzariol, Tobia decise di dare i disegni a Portoghesi, che ne era l’istigatore con Mazzariol e Fantoni. È successo a casa di Fantoni, mi ricordo che c’erano Norberg-Schulz e Francesco Dal Co, che sarà poi il curatore della mostra.

 

G.B. Che rapporto aveva Francesco Dal Co con Carlo Scarpa finché Scarpa era vivo?

Ph.D. Nessuno.

 

G.B. Che rapporto aveva Manfredo Tafuri con Carlo Scarpa?

Ph.D. Nessuno, neanche lui; solo come colleghi a scuola. Carlo Scarpa sapeva essere terribile, ad esempio non era il tipo da lasciar fare giochi di potere. Nei Consigli di facoltà, se li avessi visti quando era rettore, era spietato: appena intuiva un gioco di potere lo rompeva. Era un bravissimo rettore.

 

G.B. Che cosa credi che Tafuri pensasse di Carlo Scarpa?

Ph.D. Niente.

 

G.B. Non lo vedeva?

Ph.D. Sì, lo vedeva, gli chiese di fare delle fotografie alle opere di Wright in America. Era un periodo molto politicizzato, ti ricordi? Noi sapevamo che Scarpa era un architetto reazionario, anche Georges Teyssot gli lanciava i sassi al grido di «architetto capitalista!», era grottesco. Col tempo ci siamo tutti assestati ognuno nella propria carriera, e Carlo Scarpa è diventato un nodo importante nella cultura di Venezia. Credo che lo abbia fatto per opportunismo, comunque è Tafuri che ha deciso di dargli la laurea honoris causa, che non aveva mai ottenuto. Per ironia della sorte Manfredo e Francesco si sono impegnati per conferirgli la laurea. 

 

G.B. E loro in Scarpa cosa vedevano?

Ph.D. Tafuri l’ha scritto: le muse inquietanti, i maestri. E non è falso, eh? Quell’articolo di Manfredo su l’«Architecture d’aujourd’hui» non è mica falso. L’accostamento con Gardella o Samonà a me faceva un po’ pena. Capisco, se vuoi, che Gardella può avere un senso. Tornando indietro alla storia della Scuola, nella diaspora veneziana che hanno creato dopo la guerra a certi livelli ognuno ha la sua importanza e sono maestri in modo diverso. L’architettura di Samonà non mi ha mai molto interessato, però la sua strategia sulla Scuola di Venezia mi pare molto importante, era una persona politicamente importante. Gardella… vedevo tutti quegli studenti che facevano la tesi con Gardella e mi sembrava un po’ noioso. Dopo, quando l’ho conosciuto mi sono accorto che non era un cretino e aveva un giudizio molto giusto su Carlo Scarpa. Eravamo giovani, avevo trent’anni, forse non così giovane allora…

Carlo Scarpa per me è stato quasi più importante di Manfredo. Nella crisi che si è verificata all’Istituto di storia, l’incontro con Carlo Scarpa mi ha salvato la vita. Mi ha permesso di vedere le cose – la mia stessa cultura tafuriana – in un altro modo. Sono sempre stato un architetto, fallito, e ho lavorato su un architetto fallito, Lequeu: stranissimo, una storia di fallimenti. Voilà!

 

G.B. Il tuo lavoro su Carlo Scarpa ti pare un fallimento?

Ph.D. No, ma non ho mica fatto granché su Scarpa. Il mio modo di scrivere articoli facendo collage di testi citati è, se vuoi, soltanto una critica a Manfredo. Nominato a Nantes, ho avuto la chance di utilizzare l’ultimo corso che aveva tenuto Manfredo Tafuri, sull’ideologia antiurbana. Ho deciso di partire come prima cosa dal corso di Manfredo: ho lavorato sulle sue dispense e vi ho trovato migliaia di cose copiate. Manfredo si appropriava dei testi, come Milizia. Ma è chiaro che le idee c’erano, non è un difetto. Poi, per rispondere a Manfredo, scrivevo un articolo su Lequeu o su Jefferson con dei titoli che facevano riferimenti ironici a quelli di Barthes o di Foucault, e lui mi rimproverava. Fino a scegliere di presentare i documenti d’archivio e basta, senza aggiungere niente, come nella mostra su Detti: avevo tre mesi per farla! L’idea mia era di mostrare il suo lavoro fino al rapporto con Scarpa, la sua figura come uomo politico e amico di Carlo Scarpa. Per me era importante. Lo conoscevo bene, gli chiesi un articolo su Scarpa e la città per «AMC».