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Videointervista

Eugenio Bozzetto
esecutore

luogo: San Vito di Altivole (Treviso), tomba Brion
data: 25 luglio 2006
intervista di: Maddalena Scimemi e Vitale Zanchettin
durata: 23:05 (introduzione); 09:27 (propilei); 03:46 (arcosolio); 01:38 (tomba dei familiari); 03:46 (cappella)

principali opere citate: Complesso monumentale Brion
biografie: Eugenio Bozzetto, Vitale Zanchettin, Maddalena Scimemi

Maddalena Scimemi [M.S.]Siamo in compagnia di Eugenio Bozzetto detto Piero, il maggior responsabile del cantiere del cimitero Brion di San Vito di Altivole. Quando ha conosciuto Carlo Scarpa?

Eugenio Bozzetto [E.B] L’ho conosciuto a Treviso, stavamo facendo un lavoro in centro; a un architetto dimissionario era subentrato l’architetto Gemin. Una mattina venne insieme a una persona e mi disse «Guarda, questo è il professor Scarpa». L’ho conosciuto quel giorno, abbiamo parlato; io dovevo fare i pilastri, rivestirli. Dopo, ogni settimana veniva a vedere il lavoro, io ero contento di vederlo.

 

M.S. Che impressione ha avuto la prima volta che l’ha visto?

E.B. La prima volta che l’ho visto ho pensato «questo qua non è una persona a posto», perché aveva preso dei soldi e li aveva buttati giù, aveva detto «lasciali là, sono miei», e io «ma questo cosa fa?». Dopo ho dovuto ricredermi.

 

M.S. Lavoravate a un cantiere di Luciano Gemin, quindi in un certo senso Scarpa aveva un ruolo di consulente. Lei a quell’epoca lavorava per l’impresa Simonetti di Oderzo e di Treviso, giusto? Un’impresa che poteva contare su un gran numero di operai…

E.B. Un’impresa grossa, è vero. Avevano di sicuro un centinaio di operai perché seguivano tanti lavori.

 

M.S. Per lo più a Treviso?

E.B. A Treviso ma anche nei dintorni, da tutte le parti. Avevano anche il reparto strade.

 

M.S. Lei che ruolo aveva nell’impresa?

E.B. Io sono andato a lavorare nell’impresa, sempre di Simonetti, che aveva la falegnameria e un magazzino di edilizia, c’ero andato per imparare a fare il falegname. Poi, subito dopo la guerra le imprese hanno cominciato a lavorare il calcestruzzo; allora c’era il cognato di Simonetti che lavorava con me, lavoravamo con il calcestruzzo, facevamo i coperti delle case. Un giorno Simonetti mi ha portato a Casarsa; gli ho chiesto «Cosa andiamo a fare a Casarsa?», e lui «Andiamo a fare la cantina La Delizia – ha detto – e là fai tu il capo». Era il 1954. Da quel giorno ho cominciato a dirigere, non ho più lavorato manualmente ma avevo i miei impegni, avevo diversi lavori da seguire. Nel 1961 è cominciata la prima fabbrica di Benetton e poi sempre avanti così.

 

M.S. Si può dire che quando Scarpa si è trovato a dover realizzare il complesso Brion, abbia scelto lui la vostra impresa?

E.B. Non lo so, non posso dirlo. Simonetti mi ha detto «Bisogna andare ad Asolo, c’è una tomba da fare». E io: «proprio una tomba andiamo a fare ad Asolo?». Mi ha risposto di sì e siamo venuti qua a vedere; c’era il professor Scarpa, abbiamo parlato; dopo, quando mi ha portato i primi disegni, ho pensato «Qua son cose da diventar matti!».

 

M.S. Come le ha spiegato la prima volta il progetto?

E.B. Si doveva fare e basta, per lui non c’erano mai problemi; per esempio non guardava mai ai costi, non c’entrava con queste cose; l’importante per lui era solo il lavoro da fare e come farlo.

 

M.S. Quando sono iniziati i lavori? Era l’estate del 1970, giusto?

E.B. Mi sembra di sì, era d’estate ma non mi ricordo di preciso.

 

M.S. Cosa portava con sé Scarpa, dei disegni?

E.B. Portava dei disegni. Un giorno mi ha detto «Guarda Piero, prendi un rotolo di carta, ma che sia grezza non bianca». Allora ho preso un rotolo di carta, l’abbiamo messo sul tavolo che avevo preparato per i disegni e lui mi ha fatto prendere il carbone (lo andavo a prendere in un forno perché voleva il carbone di legno). Mi ha fatto vedere cosa doveva venir fuori e poi, qualche giorno dopo, gli architetti che erano sempre assieme a lui mi portarono i disegni esecutivi.

 

M.S. Si ricorda quali erano gli architetti che aveva intorno Scarpa?

E.B. Ce n’erano tanti, ce n’era uno che è venuto a trovarmi fino a pochi anni fa, anche a Oderzo tante volte, un architetto di Vicenza.

 

Vitale Zanchettin [V.Z.] Federico Motterle? Un tipo alto…

E.B. Sì. Eravamo là sul prato e Scarpa mi ha detto «Piero, mi sembra che questo prato sia troppo alto perché si vedono le case di San Vito; io voglio vedere solo i coperti e voglio vedere Asolo». Allora ho chiamato un operaio e abbiamo abbassato un po’ il terreno. Mi ha detto «Va bene così? Prova a vedere anche tu». «Ma io sono più piccolo, professore». Allora è montato questo architetto e ha detto «Io, professore, vedo ancora le case». «Ma tu non crederai di essere mica normale» gli ha risposto lui.

 

M.S. Proviamo a fare un salto indietro nel tempo: quante volte veniva Scarpa in cantiere?

E.B. Veniva due o tre volte alla settimana. A volte veniva tutti i giorni: magari la mattina passava da qui andando a Venezia, veniva dentro, stava 10 minuti, parlavamo, guardavamo.

 

M.S. Veniva con l’autista?

E.B. Sì perché non aveva la macchina.

 

M.S. Dove vi mettevate a discutere, nella baracca?

E.B. No, fuori: in baracca non andavamo mai.

 

M.S. Si ricorda se c’erano dei punti di questo terreno che gli piacevano particolarmente, dove si soffermava?

E.B. No.

 

M.S. Che rapporto c’era fra voi? Di cosa discutevate? Lei ha un passato da esperto falegname: parlavate di legno, parlavate di calcestruzzo…?

E.B. Di calcestruzzo, di cosa dovevamo fare, perché con lui le tavole non dovevano mai essere “pianate”. Dovevano venire fuori i nodi, i segni della sega, doveva venire “naturale”. Guardi questi segni [indica]: tra una tavola e l’altra veniva fuori un bordino e quando tiravamo via le tavole qualche pezzettino saltava via. Allora un operaio ritoccava, metteva a posto. Un giorno è venuto qua, eravamo fuori: «Cosa fa Piero?» mi fa. «Professore, a volte si rompe qualche pezzettino». «Ma dovevamo spaccarlo tutto, – ha detto lui – dovevamo buttarlo via tutto!».

 

M.S. Come facevate la distanza tra le tavole?

E.B. Le tavole erano tutte alla stessa altezza, dovevano essere tutte allo stesso posto, sempre.

 

M.S. E come facevate a garantire la continuità dei corsi delle assi quando cambiavano gli spigoli e c’era un giunto?

E.B. Il giunto si doveva fare. La porta della chiesa l’ho demolita perché avevamo gettato la sera, la mattina quando hanno disarmato sono venuti fuori dei sassi e a ritoccare si vede sempre, allora ho detto «Buttiamo via tutto e rifacciamo». Due giorni dopo è arrivato qui il professore e gliel’ho riferito: me ne ha dette di tutti i colori!

 

M.S. Avrebbe voluto lasciarla?

E.B. Sì, perché era venuta fuori “naturale” e doveva restare così.

 

M.S. Usava lui questa parola, «naturale»?

E.B. Sì. Era una gran persona.

 

M.S. Il legno come lo sceglievate? Mettevate tutte le assi vicine...

E.B. Sì, gli operai ormai lo sapevano.

 

M.S. Si può dire che questo sistema di lavoro ha funzionato per tutte le parti del cimitero? Una volta che avevate ingranato da una parte vi spostavate senza difficoltà?

E.B. Sì.

 

M.S. Se guardiamo invece le parti dove c’è la dentellatura, come facevate a fare lo spigolo?

E.B. I disegni li faceva Scarpa e io dovevo eseguirli (che a pensarci a volte non dormivo la notte). Quando facevamo l’arco ho detto «Ma non ne ha altre da inventare?». Comunque le ho fatte e sono contento di averle fatto, dico la verità.

 

M.S. Quanti eravate, più o meno, a lavorare quotidianamente?

E.B. Sette, otto persone al massimo.

 

M.S. Di dov’erano gli operai?

E.B. Quasi tutti di Oderzo e di Treviso.

 

M.S. E dopo hanno continuato a lavorare con l’impresa?

E.B. Sì, sempre.

 

M.S. Poi quest’impresa è passata nelle mani di un nipote...

E.B. Del nipote di Simonetti, Luigi Bratti.

 

M.S. Quindi negli ultimi anni di cantiere, dal 1972 in poi, il referente di Scarpa è sempre stato Bratti?

E.B. Sempre Bratti, sì, e avevano un buon rapporto.

 

M.S. Si ricorda di visite al cantiere in cui Scarpa era accompagnato da qualcuno?

E.B. Veniva tante volte con delle persone ma io non chiedevo mica chi erano. Quando venivano guardavano insieme, parlavano tra loro, io non c’entravo.

 

M.S. Come cominciavano il giro? Dai propilei o da altre parti?

E.B. Da tutte le parti entravano, anche da dietro.

 

M.S. Facevano anche il giro dall’esterno?

E.B. Sì, qualche volta lo facevamo.

 

V.Z. Venivano anche altri senza Scarpa, qualche curioso...?

E.B. Di curiosi ne venivano tanti. Un giorno sono venute quattro persone da Milano, non so se erano architetti o studenti, erano giovani; i lavori qua erano quasi pronti, mancava poco a finire, e loro venivano dentro e criticavano qua e criticavano là... Il giorno dopo è venuto qua il professor Scarpa e gli ho detto «è successo questo», e lui: «Piero, ricordati che la critica è l’opinione della persona ignorante, perché prima bisogna fare cose migliori e dopo si possono criticare quelle degli altri».

 

V.Z. Altre visite?

E.B. Sì, ce n’erano sempre. Un architetto, o professore, di Milano che è venuto qua diverse volte dopo che avevamo finito, organizzava visite per gente che veniva dall’Olanda, dal Belgio, dall’Inghilterra, dall’Austria. Una volta, saranno state quaranta persone, quando hanno visto dov’era sepolto ci sono rimaste male per quella lapide con tutta l’erba attorno; allora hanno dato dei soldi al custode perché pulisse e mettesse a posto. Io non sono neanche venuto al funerale qui.

 

M.S. No?

E.B. No, perché mi sono arrabbiato con Bratti, e dopo con Tobia.

Un giorno che eravamo all’entrata, dove sulla sinistra c’è quel prato con i gradini, Scarpa mi ha detto «Piero, quando muoio voglio essere sepolto su quell’angolo là». «Beh professore – ho detto io – quando muoio che mi mettano dove vogliono!». «Eh no, ciò! Ricordati che voglio essere messo in piedi». «Perché?». «Perché quando la carne non tiene più le ossa franano e io mi diverto a sentirle». Ah, che persona!

 

M.S. Parliamo anche di chi ha lavorato insieme a voi: chi ha calcolato i ferri?

E.B. Maschietto.

 

M.S. Maschietto? E veniva l’ingegnere stesso in cantiere?

E.B. Eh sì.

 

M.S. Più di Scarpa?

E.B. Non più di Scarpa, forse perché aveva fiducia in me… L’avevo conosciuto subito dopo la guerra perché aveva fatto una villa per un suo parente a Oderzo; mi ero trovato in difficoltà con il coperto e allora il titolare Simonetti mi ha mandato a Venezia... era la prima volta che andavo a Venezia.

 

M.S. Dove aveva lo studio Maschietto?

E.B. Non me lo ricordo più, son passati cinquant’anni, so che non serviva andare con la barca. Mi ha aperto la moglie e mi ha detto «è ancora a letto»; poi è venuto giù e gli ho chiesto «come faccio a fare qui?». «Eh, hanno sbagliato i disegnatori» ha detto lui. È stata la prima volta che ho conosciuto Maschietto ma per Simonetti era sempre lui a fare i calcoli.

 

M.S. Che persona era Maschietto?

E.B. Una brava persona.

 

M.S. Con i ferri ci sono stati punti critici?

E.B. No. Questioni di soldi, di «Sì, ma quanto costa?», non ce n'erano. Brion figlio non si è mai visto e la signora è venuta una volta sola; e se c’era da fare questo e costava cinque o dieci, nessuno diceva niente.

 

M.S. Il cantiere è partito dalla vasca sud, dai lavori di sbancamento, giusto?

E.B. Come primo lavoro abbiamo fatto la recinzione.

 

M.S. Prima di scavare?

E.B. Siamo partiti dall’angolo là [sud-est] e poi abbiamo scavato.

 

M.S. E una volta che la recinzione era completa?

E.B. Abbiamo fatto lo scavo.

 

M.S. E col terreno dello scavo avete fatto le altre zone?

E.B Sì, il terreno è stato portato... La sera dopo che avevamo gettato mi ha telefonato: «Piero, ho sbagliato, sui disegni ho scritto 6 e invece è 0,06», parlava dell’altezza della mura sopra il lago. Insomma, c’erano sei millimetri da abbassare e ho detto «Sì, professore, li tiro via». Ma guarda se dovevo andare a togliere 6 millimetri a 4-5 metri sopra là: era fatto così.

Quando ho fatto le piastre che dall’entrata vanno al padiglione sull’acqua (si gettavano sempre sul legname), è venuto e ha detto «Dammi qua»; gli ho dato una punta e ha scritto il suo nome a rovescio «in modo che quando lo metti giù nell’acqua vediamo che riflette il mio nome». Dopo non ci ho più pensato; quando hanno messo giù le piastre non mi sono accorto che erano avanzate tre quattro piastre fra cui anche quella... Purtroppo è sparita, mi hanno detto anche dov'è ma non sono stato capace di ritrovarla. Quando hanno girato Un’ora con Carlo Scarpa, e io ero a Venezia, ho detto che da Benetton a Treviso avevo dovuto cambiare ufficio e mi avevano fatto buttare via un sacco di roba, anche il rotolo di carta che mi portavo dietro da tre anni. Me ne hanno dette di tutti colori, me ne staranno ancora dicendo. Era Scarpa, sì, ma allora non aveva tutta questa pubblicità, è venuta fuori dopo che era morto.

 

M.S. Si ricorda discussioni tra Scarpa e Maschietto?

E.B. No, non hanno mai avuto discussioni, mai.

 

M.S. Si ricorda di altri collaboratori oltre a Motterle, più giovani?

E.B. Ce n’erano sempre tre o quattro.

 

M.S. Erano sempre gli stessi o cambiavano?

E.B. Cambiavano.

Una sera che ero a cena a casa sua a un certo punto è sparito; vado fuori e lo trovo seduto sul tavolo che guardava, così... Altre volte mi chiamava, arrivavo là e la Nini mi dice «Piero, mi ha detto di dirle, se veniva, che non ha voglia di riceverla perché ha altro da fare», allora tornavo indietro. Per lui il tempo e i costi non erano mai un problema: veniva qua, tirava fuori 200, 300 o 500 lire per andare a prendere un bottiglione di vino da bere con gli operai; il giorno dopo magari ti dava 100 lire, perché non aveva la misura dei soldi.

Una volta è venuta la signora Brion, mentre ero qua con Simonetti, e ha detto «io non l’ho mai pagato, per pagarlo come faccio?». Allora ha parlato con Simonetti e gli ha consegnato un assegno.

 

M.S. Quindi Scarpa è stato pagato con l’assegno attraverso Simonetti?

E.B. Gli avrà dato l’assegno. Era una gran persona, glielo dico io.

 

Propilei

 

M.S. Siamo nei cosiddetti «propilei». Si ricorda come fu realizzato il getto con le assi di legno a perdere?

E.B. Per noi era una cosa normalissima.

 

M.S. Ricorda se ci fu un problema con due altezze diverse?

E.B. No, non mi ricordo.

 

M.S. Ci parla della posa dei listelli di legno?

E.B. Abbiamo fatto il pavimento di legno, poi messo i listelli al loro posto e poi il getto.

 

M.S. Sono state dipinti in opera?

E.B. Sì.

 

M.S. E i pannelli del pavimento? Sono queste le piastre con dietro la firma di Scarpa?

E.B. Quelli sono in fondo [indica l’uscita verso il padiglione sull’acqua]. Comunque tutti sono stati gettati su legno.

 

V.Z. Quindi anche tutto questo, compreso il gradino?

E.B. Tutto.

 

M.S. E sotto che cosa c’è?

V.Z. Un metro e ottanta o due d'acqua.

E.B. Sì, non mi ricordo più quanta.

V.Z. È tutto un canale che corre dall’arcosolio fino alla vasca sud.

 

M.S. L’apertura sul soffitto si ricorda per cosa era stata pensata? Per la luce?

E.B. Non lo so, probabilmente era qua sull’entrata per dar luce, sì.

 

M.S. Non c’erano piante?

E.B. No.

 

V.Z. Quali sono, a sua memoria, le prime parti di calcestruzzo dentellato che avete costruito nel cimitero?

E.B. Le mura esterne.

 

V.Z. Quelle intorno alla vasca sud o il muro più interno che corre dietro all’arcosolio?

E.B. Quelle interne.

 

V.Z. E dopo il muro della vasca?

E.B. Sì, dopo quel muro là. Il primo lavoro che abbiamo fatto con i dentelli sono gli spigoli del terrapieno.

 

V.Z. Che tutto sommato è molto poco dentellato...

E.B. Sì, saranno quattro o cinque denti, basta andare a vedere.

 

V.Z. Parliamo sempre del muro interno?

E.B. Di quello al di qua che ferma la terra.

 

V.Z. Quindi è il muro di contenimento il primo muro. Poi come avete continuato?

E.B. Dopo abbiamo fatto il muro intorno alla vasca, il lago; poi, prima l’arco e dopo i propilei; per ultimo abbiamo fatto la chiesa.

 

V.Z. Aveva mai costruito cose simili?

E.B. No. Per questi lavori io seguivo dalle fondazioni fino alla fine della struttura, per le rifiniture arrivavano gli altri.

 

V.Z. In fase di disarmo non si staccavano gli spigoli?

E.B. No, non si staccavano perché il getto era in calcestruzzo molto grasso, le tavole ben bagnate in modo che il cemento non si attaccasse.

 

V.Z. Dopo quanto tempo disarmavate?

E.B. Il giorno dopo: se gettavamo stasera domani si disarmava.

 

V.Z. Bisogna essere molto previdenti e veloci nel disarmare cose come la cappella, per disarmarla tutta insieme intendo.

E.B. Eh sì. Per disarmare serviva una giornata, anche una giornata e mezza o due.

 

M.S. L’ultima volta che ha visto Scarpa se la ricorda?

E.B. Otto-dieci giorni prima della sua morte.

 

M.S. Dov’eravate?

E.B. A casa mia. Era venuto insieme all’architetto Gemin a salutarmi e mi ha detto «Piero, vado in Giappone». «Beato lu, professore, così ogni tanto gira il mondo!». «Ricordate che quando vegno a casa me porto a casa una vasca da bagno!». «Una vasca da bagno? – ho detto io – Ma ci sono vasche da bagno anche qui in Italia». «Ciò, ma ti non te lo sà mia! Quando ti lavi nella vasca ti posi con la schiena e ti vengono i brividi... – ha detto – ... invece là le xe de legno, me ne porto a casa una di legno!». Xe vegnù casa con la vasca de legno, sì, ma in un’altra maniera. Han detto che era in una pagoda che era andato a visitare e che c’era del muschio sulla scala, è scivolato, ha battuto la testa... Voleva essere sepolto in quell’angolo là, in piedi!

 

V.Z. Quale angolo?

E.B. Questo [indica lo spigolo del muro fra i gradini d’ingresso e il corridoio nord-sud dei propilei].

 

M.S. Non avete mai fatto altri lavori con Carlo Scarpa oltre a questo a San Vito?

E.B. No.

 

V.Z. Con Scarpa aveva rapporti anche fuori dal lavoro?

E.B. Andavo sempre a prenderlo in aeroporto. Una sera mi ha telefonato alle dieci e mezza, ero a già a letto, suona il telefono: «Pronto?». «Piero, viento torme?». Credevo che fosse in aeroporto perché tante volte andavo a prenderlo lì. «No – dice – sono a Padova, te speto mi!». Padova sarà a 80-90 chilometri... «Va ben, professore, 'desso vegno!». Arrivo a Padova e vado in stazione, aveva detto che mi aspettava lì ma non lo vedo. Allora esco e vedo tre persone, mi avvicino e c’era anche la Nini: «Piero, me marì non xe a posto, ma gnanca tì te sì a posto!». Siamo arrivati ad Asolo che erano le tre passate e m’ha detto «Se fossimo partiti alle tre e mezza da Padova e fossimo andati a Treviso, e da Treviso avessimo aspettato per arrivare a Montebelluna, e a Montebelluna avessimo trovato un taxi che ci portava ad Asolo, venivano le otto prima di arrivare a casa, invece sono le tre e siamo già arrivati», che tipo! Gli ho spedito la calce in Canada...

 

M.S. A Montreal?

E.B. Non mi ricordo, stava facendo una mostra e gli ho spedito due bidoni di calce. Mi ha detto: «I romani una volta facevano gli intonaci e dopo duemila anni sono ancora là... invece voi altri fate gli intonaci e dopo sei mesi cascano giù tutti!». Voleva che la calce avesse come minimo 6 mesi.

 

V.Z. Le foto del cantiere Brion mostrano un silos... c’era cemento nel silos?

E.B. Sì, qua l’impasto arrivava già fatto ma se ne serviva poco lo facevamo noi; se erano 1 o 2 metri cubi da fare ci arrangiavamo.

 

Arcosolio

 

M.S. Siamo davanti all’Arcosolio dove ci sono le tombe di Giuseppe e Onorina Brion, la parte che, a detta del signor Bozzetto, è stata la più complicata di tutto il cantiere.

E.B. Sì, è stata la più difficile da eseguire, basta guardarla. Tutti gli architetti che sono venuti a vederlo mi han chiesto «Come ha fatto a farlo?». «Eh, l’ho fatto» dico io, e sono contento di averlo fatto.

 

M.S. Le rifacciamo anche noi questa domanda. Avete fatto la cassaforma con una luce grande come tutta la trave e poi avete fatto gli appoggi?

E.B. Sì.

 

M.S. Siete partiti dalla parte orizzontale...

E.B. Dal cassone, sia orizzontale che il resto; dopo mettevamo dentro il legname in modo che restassero i vuoti da riempire col cemento.

 

M.S. Quanti giorni è durata la costruzione della cassaforma?

E.B. Non mi ricordo quanto ma so che ho dovuto costruire una parete in legno su un fianco perché il sole non rovinasse il legname che doveva stare là un mese, quindici giorni come minimo, e doveva stare all’ombra.

 

M.S. E per un mese di cassaforma, la gettata in quante volte l’avete fatta?

E.B. In un momento solo, una giornata.

 

M.S. Il giorno che avete gettato cosa avete fatto, battevate col martello?

E.B. No, adoperavamo due vibratori, uno all’interno del cemento e uno esterno sul legno.

 

M.S. Dov'erano messi?

E.B. Li adoperavano due operai, uno dentro al cemento e uno fuori dove arrivava il cemento perché venisse vicino alle tavole.

 

M.S. Le tavole sono dei morali di che dimensione?

E.B. Cinque e mezzo per undici, lunghe quattro metri che poi tagliavamo...

 

M.S. Le lavoravate qua?

E.B. Sì, facevamo tutto quanto qua, avevamo la motosega.

 

M.S. Le tessere di mosaico che sono nell’intradosso dell’arcosolio quando le avete posate?

E.B. Quando era tutto finito, è stata l’ultima cosa fatta.

 

M.S. Chi era venuto a posare le tessere?

E.B. Non lo so, era uno che veniva da Venezia.

 

M.S. Invece lo scavo della base? Anche quello l’avete fatto prima di fare la cassaforma?

E.B. Credo bene! Perché l’allacciamento è qua, in questo punto, l’altro invece è libero, non è allacciato.

 

M.S. Qual è il punto libero?

E.B. In fondo è appoggiato su due rulli in modo che il cemento, che col caldo e col freddo si muove, non si rompa; è allacciato solo da un lato e dall’altro può muoversi.

 

Tomba dei parenti

 

M.S. Siamo davanti alla tomba dei familiari: più o meno quando avete realizzato questa parte?

E.B. Dopo l’arcosolio e prima della cappella, che è stata l’ultima.

 

M.S. Questa è stata più semplice?

E.B. Molto più semplice, non dava problemi questa.

 

M.S. Mi pare che ci siano anche degli elementi in pietra dentro al calcestruzzo, o sbaglio?

E.B. No, non ci sono.

 

M.S. I corsi per far defluire l’acqua nei doccioni non sono di pietra?

E.B. No.

 

M.S. È tutto calcestruzzo?

E.B. Tutto calcestruzzo

 

M.S. Esistono dei punti con delle guide per far scendere l’acqua?

E.B. Ci sono due punti per far scendere l’acqua, viene fuori di qua [indica].

 

M.S. Ce ne sono anche all’interno?

E.B. No, all’interno no, sono solo questi due.

 

M.S. Per costruirla quanto ci avrete messo?

E.B. Chi può ricordarsi...

 

M.S. Anche le fasce con i due fori dei doccioni sono in calcestruzzo?

E.B. In calcestruzzo, sì.

 

Cappella

 

M.S. Che cosa si ricorda di quando avete costruito il pavimento?

E.B. Del pavimento? Niente, dovevamo farlo, non c’era niente di difficile.

 

M.S. Questa soluzione “quadrettata” come è stato realizzata?

E.B. Questi quadretti piccoli 5 x 5 cm li hanno ordinati apposta perché dovevano essere tutti uguali, non mi ricordo da dove sono venuti.

 

M.S. E come li avete appoggiati sul pavimento?

E.B. Prima abbiamo fatto il calcestruzzo, poi abbiamo messo la malta e li abbiamo posati sopra, come un pavimento normale.

 

M.S. E le finestre?

E.B. Per le finestre abbiamo fatto prima tutta la parete in legno, poi dentro mettevamo quei blocchi con tutti gli angoli dei morali.

 

M.S. Si riescono a distinguere le giornate di lavoro?

E.B. Le giornate?

 

V.Z. È un getto unico, no?

E.B. Sì, un getto unico, non ci sono mai giunti.

 

V.Z. Un getto solo fino in cima alle pareti…

E.B. Fino al solaio.

 

M.S. Invece la parte di soffitto sopra all’altare?

E.B. Questa l’abbiamo fatta dopo.

 

M.S. L’opera in legno qui di questa parte del soffitto l’ha fatta lei?

E.B. No, l’opera in legno l’hanno fatta dopo, io non sapevo neanche che l’avessero fatta in legno.

 

M.S. Non lo sapeva?

E.B. No, perché c’erano ancora tutti gli angoli in cemento; è successo che quando gli operai hanno dato la misura in altezza si sono trovati 12-13 centimetri più in alto. Allora sono venuto dentro e ho detto «lassù non va a vedere nessuno se sono 12 cm più alti» e abbiamo fatto il getto. Un giorno è venuto il professore, mi sembra fosse il 28 di luglio, l’anniversario della morte di Brion. Era mezzogiorno e stando fuori sul prato [a ovest della cappella] si sarebbe dovuto vedere il sole entrare da quel foro sull’angolo; invece si vedeva la cupola. Ha detto: «Cosa ho fatto? Ho sbagliato!», si vergognava. Allora ho detto «Professore, ho sbagliato io». Così lì sopra ha fatto fare una cassetta, ha messo dentro della terra e dei sassi e ha detto «lì pianti un sempreverde rampicante e lo metti fuori in modo che non si veda». L'abbiamo fatto ma dopo non l'ha più fatto nessuno, nessuno va desora a bagnare i fiori, e si vede il foro. Sulla rivista che mi è arrivata dall’Inghilterra c’è una fotografia con il verde e io ho pensato «Quella è la mia firma», invece adesso non c’è più niente.

 

M.S. La vasca fuori l'avevate fatta prima?

E.B. Era fatta prima, fatta e riempita d’acqua.