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Videointervista

Federico Motterle
collaboratore

luogo: Pianezze di Arcugnano (Vicenza), casa dell’arch. Motterle
data: 11 maggio 2010
intervista di: Ilaria Abbondandolo
durata: 00:47:13

principali opere citate: Complesso monumentale Brion
biografie: Federico Motterle, Ilaria Abbondandolo

Ilaria Abbondandolo [I.A.] Quando hai conosciuto Carlo Scarpa?

Federico Motterle [F.M.] Quando mi sono laureato ho capito che per imparare il mestiere di architetto era importante andare a bottega. Allora, visto che ero molto interessato all’architettura organica per la sua attenzione ai materiali e ai rapporti umani, andai a Venezia a chiedere al professor Carlo Scarpa – che sapevo avere questi stessi interessi – se potevo lavorare da lui. A quel tempo aveva lo studio ad Asolo e accolse la mia richiesta. In un primo periodo restavo ad Asolo quasi tutta la settimana, poi, avendo iniziato il mio lavoro a Vicenza, andavo lì dal venerdì pomeriggio alla domenica sera. A un certo momento il lavoro è aumentato e non riuscivo più a seguirlo, così convinsi il professore ad abitare a Vicenza. Conoscevo la famiglia Valmarana, che gli mise a disposizione un appartamento molto bello vicino alla villa dei Nani. Da parte mia, trasferii lo studio che avevo presso porta Santa Croce vicino all’abitazione di Carlo Scarpa, e lo condividemmo fino a quando Giustino Valmarana non gli concesse l’utilizzo delle scuderie.

 

I.A. Per capire quando hai iniziato a frequentare Scarpa, in che anno ti sei laureato?

F.M. Mi sono laureato in urbanistica a Firenze nel 1963; Carlo Scarpa l’ho conosciuto nel 1964. Ciò che ho imparato dal professore è l’uso di una serie di elementi espressivi per controllare il progetto. Mi piaceva il suo modo di lavorare sui cartoncini, in un rapporto molto bello con la materia, e il suo uso dei colori che lo portava a controllare meglio i volumi e i dettagli. L’altra cosa che mi ha sempre colpito del professore era il suo interesse verso le persone che lo avevano coinvolto in un certo incarico, le persone a cui era destinato un progetto e che lo avrebbero vissuto, i loro modi di utilizzare gli spazi, le eventuali tradizioni del loro ambiente.

 

I.A. Molti dicono che Carlo Scarpa non avesse uno studio nel senso moderno del termine, ma di fatto aveva molti collaboratori e un luogo dove progettava. Puoi descrivere una giornata-tipo di lavoro con lui?

F.M. Ad Asolo lo studio era sul pianerottolo sotto alla sua abitazione, che aveva un bellissimo panorama. Dalle 7 del mattino fino alle 11 il professore rimaneva a casa a leggere libri di filosofia, di storia dell’arte o di critica d’arte; scendeva in studio verso le 11 e si lavorava per un paio d’ore, poi c’era la colazione e dopo si proseguiva. Dopo cena, molto probabilmente perché si creava uno stato di distensione maggiore, si lavorava più intensamente, anche fino a mezzanotte e oltre.

 

I.A. Prima di chiedere a Scarpa di andare a lavorare nel suo studio, ti eri fatto delle idee su di lui, sapevi cosa dicevano di lui i colleghi?

F.M. Non ricordo di averne mai parlato con colleghi o amici; come dicevo, la scelta di Scarpa era legata al mio interesse verso l’architettura organica che, rispetto al razionalismo, era più attenta all’uomo, alla natura, ai materiali, tutti aspetti che mi affascinavano. Prima di conoscere Scarpa ero un grande ammiratore di Frank Lloyd Wright, acquistavo tutti i libri che uscivano su di lui.

 

I.A. Negli anni in cui eri in studio con Scarpa che cosa ti veniva chiesto di fare?

F.M. All’inizio chiaramente ho fatto quasi solo il disegnatore; poi, a mano a mano che imparavo il modo di progettare del professore e i suoi riferimenti culturali, abbiamo iniziato a discutere insieme i progetti. Una volta visto il sito su cui doveva sorgere un edificio oppure la casa che avremmo dovuto restaurare, dicevo le mie impressioni e si discuteva; il professore buttava giù una serie di schizzi e poi ci mettevamo a lavorare. Certe volte è capitato che il professore, che fumava un tipo di sigarette confezionate in pacchetti rigidi, mentre eravamo in macchina schizzava dietro al pacchetto; poi, arrivati in studio, riprendeva questi schizzi e li approfondiva.

Vorrei parlare dei viaggi, piuttosto contenuti, che ho fatto con il professore. Poiché aveva un incarico a Roma, e per altri motivi legati al suo insegnamento, più di una volta è capitato di andarci insieme. Mi ha colpito, in particolare, la volta che ci fermammo a Firenze dove c’è la chiesa di Michelucci con il coperto “a vela”: Carlo Scarpa la seconda volta che la vide mi disse: «per la vela, per conto mio, Michelucci si è ispirato alle colline toscane». Dopo anni incontrai Michelucci e mi disse la stessa cosa: Scarpa aveva avuto una di quelle intuizioni che possono capitare solo ai grandi.

Quando ero a Roma con Scarpa mi affascinava la sua conoscenza della città, di un’infinità di cose oltre all’architettura; ricordo che nella zona di Trinità dei Monti mi accompagnò a vedere degli stucchi e mi raccontò che gli stuccatori più esperti dell’epoca erano i marocchini, che venivano fatti arrivare a Roma e da cui poi gli artigiani locali impararono la tecnica. Camminando con lui, era veramente impressionante accorgersi della quantità di dettagli, materiali, caratteristiche di un certo progettista che Scarpa conosceva e che io, se fossi stato da solo, non avrei neanche visto.

 

I.A. Puoi parlarci dei progetti che avete fatto insieme e che ricordi per qualche particolare motivo?

F.M. Mi è piaciuto molto un progetto un po’ particolare, la casa Bonaiuto a Roma. Un altro che mi ha affascinato enormemente è stato il cimitero Brion. Quando Scarpa ha avuto l’incarico, mi ricordo che l’ho accompagnato più di una volta a vedere il paesaggio e i modi di vivere lì intorno; inoltre voleva conoscere i Brion che avrebbero utilizzato il nuovo cimitero in maniera particolare. Questo suo approccio al progetto mi affascinava molto, così come l’idea delle due tombe che in alto si avvicinano fra loro, come due coniugi che si riuniscono dopo la morte, e che il professore ha realizzato in quel modo perché passandoci vicino si potesse accarezzare la parte alta dei sarcofagi. Queste raffinatezze erano tipiche del professore. Tornando al paesaggio, Scarpa ha voluto inclinare verso l’interno tutta la recinzione in modo da creare un’ombra dentro al cimitero, e l’ha tagliata in alcuni punti per far intravedere il paesaggio circostante.

 

I.A. Nell’ultimo decennio di studi si è cercato di dimostrare come la lettura di uno Scarpa architetto del dettaglio fosse per molti versi riduttiva e quanto proprio la scala del paesaggio fosse importante, tu cosa ne pensi?

F.M. Scarpa diceva è il dettaglio a cambiare il valore di una cosa. Ciò non significa che si fermasse a questo. Ricordo che usava il dettaglio per valorizzare un progetto, ma non era il suo punto di partenza né ciò che lo interessava di più.

 

I.A. Nel 1974 Scarpa allestì una mostra dei propri lavori nella Basilica palladiana di Vicenza. L’architetto Pietropoli, che aveva collaborato al progetto, mi ha raccontato che fu elaborato molto velocemente e che tu partecipasti forse più di lui. Ne hai qualche ricordo?

F.M. Lo ricordo vagamente perché se non sbaglio non era un tema che lo interessasse in maniera particolare.

 

I.A. Cosa puoi dire dei progetti vicentini che non sono giunti a realizzazione?

F.M. Fu un peccato. Ad esempio il Country Club mi piaceva moltissimo perché anche in quel caso l’attenzione del professore era rivolta ad analizzare le caratteristiche delle varie famiglie che avrebbero vissuto in quelle case, dai loro interessi culturali a quelli verso la natura, per poter elaborare un progetto consono a chi l’avrebbe abitato.

 

I.A. Come mai non fu realizzato?

F.M. Ci furono difficoltà a ottenere l’approvazione edilizia e anche ripensamenti da parte di alcuni dei committenti.

 

I.A. Di quali altri progetti per Vicenza – ricordo ad esempio una casa a Ponte Alto, una a Montecchio – puoi parlarci?

F.M. Ho seguito un po’ il progetto per villa Zileri, dove si doveva intervenire sul grande portico e sulle case attorno, ma la Soprintendenza non lo autorizzò. Inoltre ricordo che l’Accademia Olimpica aveva acquistato villa Valmarana Morosini e voleva che vi intervenisse il professore. Andai con lui e Scarpa la analizzò tutta quanta; finì per non accettare l’incarico soprattutto perché non c’era ancora un’idea precisa dell’utilizzo della villa, e così continuai io. Anche lì il professore mi diede prova della sua conoscenza delle tecniche costruttive, definì con precisione incredibile la parte più antica e quella più recente, e in più conosceva quel tipo di villa dal punto di vista storico.

 

I.A. Negli anni ’70 A Vicenza c’era un gruppo di intellettuali che frequentava Scarpa, potresti descrivere questo ambiente?

F.M. Direi che quello che Scarpa frequentava di più era Neri Pozza. A proposito di persone un po’ particolari, quando lo accompagnavo a Roma era in contatto con Bruno Zevi e con Manfredo Tafuri; ricordo soprattutto il rapporto di cordialità che aveva con Tafuri e le loro discussioni intorno all’architettura del momento, colloqui affascinanti come con Bruno Zevi.

 

I.A. Il Museo di Castelvecchio sta conducendo delle ricerche sul design di Carlo Scarpa. Ci sono oggetti a cui avete lavorato insieme? C’è qualcosa di relativo al design di cui vorresti parlare?

F.M. No, a parte che ho sempre ammirato il professore per non aver mai voluto fare il designer, che era il lavoro principale di Tobia. I lavori di design li ha sempre fatti da solo, non c’erano collaboratori a occuparsi di questo.

Dal punto di vista umano, come ho detto, mi è sempre piaciuto enormemente come il professore si interessasse alle persone che gli stavano attorno. Ricordo che, quando la Nini non c’era perché andava a trovare sua sorella, portavo il professore qui a cena con noi e lui si metteva a giocare a nascondino con mio figlio Riccardo, che allora aveva 8 o 9 anni; una volta giocarono a tirarsi le angurie sul pavimento. Anche quando eravamo a Roma, era più interessato alle persone in difficoltà che non agli ambienti importanti. Questa sua grande umanità l’ho sempre apprezzata.

Per concludere, il professore era molto interessato a tutta l’architettura moderna: gli interessava Wright come architetto organico, ma gli piaceva moltissimo anche Alvar Aalto; cercava di leggere Le Corbusier e spiegava a se stesso e anche a me quegli aspetti dell’architettura razionalista che non gradiva molto. In pratica era più interessato ad Alvar Alto che non a Le Corbusier, e gli dò ragione.

 

I.A. Come conosceva questi architetti? Li studiava sui libri, comprava riviste, faceva viaggi?

F.M. Non credo che Carlo Scarpa sia mai andato in Finlandia o nel Nord Europa, però mi sembra di ricordare – non vorrei sbagliare – che Alvar Aalto venne a Venezia e s’incontrarono. Per il resto li conosceva tutti attraverso i libri. Io ho visto i libri che aveva il professore, ed erano veramente una quantità enorme: alcuni erano lì per essere consultati, altri, come quelli di filosofia o sulle arti, per essere letti.