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Videointervista

Roberto Calandra
collaboratore

luogo: studio di Calandra
data: 27 aprile 2010
intervista di: Matteo Iannello
durata: 00:47:32 + 00:59:44 + 00:27:45

principali opere citate: Palazzo Abatellis, Galleria Regionale della Sicilia
biografie: Roberto Calandra, Matteo Iannello

Matteo Iannello [M.I.] Il suo legame con Carlo Scarpa inizia nel 1952 e si conclude nel 1978 con la scomparsa di Scarpa in Giappone. In quei trentacinque anni avete lavorato insieme ad alcuni tra i più importanti progetti di Scarpa, dalla celebre mostra su Antonello e la pittura del ’400 in Sicilia (1953) al nuovo Museo Nazionale di Messina (1974-1976). Ma andiamo con ordine: il 30 marzo 1953 s’inaugura nelle sale del Palazzo municipale di Messina la prima grande mostra su Antonello che segna l’avvio del lavoro di Scarpa in Sicilia e l’inizio della vostra amicizia e collaborazione. Che cosa conosceva allora del lavoro Scarpa e com’è nata l’idea di coinvolgerlo nel progetto?

Roberto Calandra [R.C.] L’idea di coinvolgere Carlo Scarpa nel progetto di allestimento della mostra di Antonello a Messina fu un fatto estemporaneo. Verso la fine di ottobre 1952 mi trovavo a Venezia per il IV Congresso dell’INU e, in un intervallo fra le relazioni, andai a visitare la mostra su Toulouse-Lautrec allestita da Scarpa nell’Ala Napoleonica del Museo Correr. Fu così che scoprii un lato del suo lavoro per me allora inconsueto, e che poi capii essere invece un’abitudine di Carlo: l’abitudine di lavorare sugli oggetti da mettere in mostra, di studiarli. Ad esempio, per Toulouse-Lautrec, contrariamente a quanto aveva fatto per la mostra di Giovanni Bellini, che per molti aspetti si avvicinava alla necessità di Antonello, aveva allestito una sala con veli bianchi e rossi che, esposti all’aria che penetrava dalle finestre, ondeggiavano nello spazio davanti al visitatore. Allora mi balenò improvvisa l’idea di contattare Scarpa – eravamo a cinque mesi esatti dalla data fissata per l’inaugurazione della mostra – e chiesi al custode di poter avere il suo indirizzo. Il custode mi disse che Scarpa si trovava nel Museo e che poteva annunciarmi, così ci siamo incontrati e io, quasi brutalmente – con una sfacciataggine per me inconsueta –, gli spiegai che a Messina stavamo organizzando la mostra e che mi sarebbe piaciuto che si fosse unito a me per progettarne l’allestimento. «Pensaci, – gli dissi – ma non molto perché il tempo è poco, poi dammi una risposta». E lui senza esitare mi rispose «Non c’è bisogno che ci pensi, per Antonello ti dico subito di sì». Dovetti anche dirgli che non era prevista alcuna retribuzione perché il Comitato tecnico che era stato incaricato dell’allestimento, di cui io facevo parte, avrebbe lavorato gratuitamente. Era previsto soltanto, e fu così, il rimborso delle spese di viaggio e di alloggio; da parte mia, mettevo a disposizione la mia casa e il mio modesto studio per ogni necessità.

Così cominciò questa impresa. Carlo Scarpa venne in Sicilia e si trattenne a Messina quasi ininterrottamente, anche durante le vacanze natalizie. Lo ricordo perché la vigilia di Natale mi regalò un libro sull’arte cinese. Con quattro mesi di lavoro siamo riusciti a consegnare il progetto in tempo, sia pure facendo qualche nottata, ma questo è normale – o quasi – per chi fa allestimenti di mostre. La presenza di Carlo a Messina è stata quasi costante: allora non era ancora assillato da tanti impegni pressanti come lo sarebbe stato subito dopo.

 

M.I. In soli quattro-cinque mesi avete progettato e realizzato l’allestimento di una delle più importanti mostre del dopoguerra. In che modo avete lavorato e come avete organizzato il cantiere? Avete preparato dei disegni o avete lavorato direttamente con le maestranze?

R.C. Non ci fu un’organizzazione particolare, anche perché la mostra fu fatta con pochissimi soldi: la maggior parte del budget di cui disponeva il professor Pugliatti era stata assorbita dalle assicurazioni delle opere provenienti dall’estero e di quelle che si erano raccolte in Sicilia, soprattutto per il Quattrocento e per la Scuola antonelliana.

Va ricordato che Messina non disponeva – e non dispone tuttora – di ambienti idonei ad ospitare una mostra di quel genere, con opere non solo di Antonello ma anche del periodo anteriore e della sua Scuola. Allo scopo fu concessa dal Comune l’ala principale del Palazzo municipale progettato da Antonio Zanca, costituita da numerose sale. Abbiamo lavorato in ambienti già architettonicamente definiti, e già usati dal Comune, carichi di marmi perché progettati in un’epoca in cui si faceva ancora largo uso della decorazione interna. Il problema principale consisteva nello sgomberare le sale dagli arredi di uso corrente e nel decidere come trattare gli ambienti, i vani di passaggio e le superfici delle pareti. Carlo Scarpa suggerì subito l’uso del calicot: per togliergli la durezza del bianco originario, fu trattato con bagni di tè e temperato in grandi vasche disposte nella sala consiliare, l’unico ambiente del palazzo rimasto incompiuto, ancora al rustico, e per il quale si dovette pensare a un allestimento diverso dagli altri ambienti. La sala consiliare divenne poi la sala principale della mostra, che conteneva i numerosi dipinti di Antonello venuti da tutt’Italia e da parecchi paesi stranieri, con delle novità assolute come la Crocifissione di Sibiu, oggi a Bucarest, la Vergine di Monaco di Baviera, la Crocifissione di Anversa, ecc.

 

M.I. Quali furono le scelte progettuali adottate per la sala di Antonello?

R.C. L’allestimento di questa sala richiese lo sforzo maggiore, sia nella concezione che nella sua attuazione. Per realizzarla, conoscendo il metodo di lavoro di Carlo Scarpa a stretto contatto con gli artigiani, ci siamo serviti dei miei collaboratori consueti: ho cercato sul posto gli artigiani più validi, i più intelligenti, quelli che avrebbero potuto interpretare al meglio la volontà di Carlo. Però non avevamo disegni esecutivi, per ragioni di tempo e di organizzazione del progetto. Ad esempio, i fabbri realizzarono i supporti delle croci bifronti o il telaio che reggeva in alto la copertura della sala di Antonello sulla scorta di disegni estemporanei e delle indicazioni che venivano date direttamente in cantiere.

 

M.I. Quali furono gli artigiani impegnati nell’esecuzione dell’allestimento?

R.C. Mario La Spada per le opere in ferro, Rosario Celentano per le opere di tinteggiatura e coloritura e Santo Bernava per le parti in legno e le tappezzerie. Nella sala di Antonello, priva di pavimento, fu posato a terra un feltro bianco burro fornito dalla ditta Haas, un feltro di grosso spessore con cui furono rivestiti anche i pannelli di supporto o, per esempio, il basso podio della Pietà Correr. Per il resto, è nota la raffinatezza della soluzione adottata per l’illuminazione naturale della sala di Antonello: trattandosi di un ambiente con finestre a sud e a est, da cui filtrava luce fredda e luce calda, Carlo Scarpa pensò di usare come contro tende, invisibili, dei veli rosa e azzurri che avrebbero modificato la luce esterna. Era una sala di notevole altezza, circa 17 metri, e con quel tronco di piramide divenne lo spazio più suggestivo dell’intero allestimento.

 

M.I. Cosa conosceva già del lavoro di Scarpa e cosa ebbe modo di vedere in seguito?

R.C. Ho conosciuto personalmente Carlo Scarpa molto dopo aver visto alcune delle sue opere. Il mio ricordo più importante è legato al mio viaggio post laurea, quando andai a visitare la Biennale di Venezia del 1938, nel Veneto e a Trieste: scoprii dei vetri di Venini disegnati da Scarpa e me ne innamorai al punto da illudermi che, con quel po’ di denari che mio padre aveva potuto darmi come premio di laurea, potessi comprare un piatto. Purtroppo presto mi accorsi che avrei dovuto rinunciarvi. Comunque, ero un frequentatore di Venezia sin dai Littoriali del 1936, che si tennero proprio in quella città, e lo sono stato anche durante la guerra, quando ebbi la fortuna di trascorrere una breve licenza di due giorni ospite del prefetto Meneghini in campo Santa Maria Formosa, nei locali – credo – che oggi sono sede della Fondazione Querini Stampalia. In queste occasioni ho potuto vedere alcuni lavori veneziani di Scarpa; e poi, ancora, nell’immediato dopoguerra, quando ho conosciuto Carlo Scarpa per la comune militanza nell’Associazione per l’Architettura Organica, e nel 1945, al mio ritorno dalla prigionia, quando ho partecipato con Luigi Piccinato al concorso del Lido di Venezia, i cui esiti furono poi annunciati nel 1946. Allo stesso concorso partecipò anche Scarpa con i suoi allievi, come noi senza ottenere altro che un rimborso spese.

 

M.I. Tornando alla mostra di Antonello, che giudizio dà di questa prima esperienza di lavoro con Scarpa?

R.C. Va premesso che fra noi c’era una notevole differenza d’età. Non solo, Scarpa aveva avviato la propria attività professionale subito dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, dunque in anticipo rispetto a chi, come me, aveva frequentato l’Università. Aveva quindi molta più esperienza di me e, in ogni caso, bastava il fatto che avesse nove anni di più perché io lo considerassi un “maestro”, quale di fatto poi fu veramente per me. Da parte mia, dovevo apprendere ed eseguire un’opera nel migliore e più intelligente dei modi di cui fossi capace, perché riuscisse bene: questo lo considero fondamentale.

 

M.I. La mostra di Antonello ebbe un enorme successo, attirando in città un gran numero di visitatori e di critici. Come giudica, a distanza di oltre cinquant’anni, la fortuna che ne derivò, non solo per Scarpa ma anche per l’arte di Antonello?

R.C. Il successo di Antonello era in parte già consolidato: in Sicilia e a Messina in particolare c’erano stati studi corposi, come il grosso volume pubblicato pochi anni prima della mostra da Stefano Bottari, e che probabilmente gli valse la successione a Roberto Longhi quando questi si ritirò dalla cattedra di Storia dell’arte a Bologna. Lo stesso Longhi scrisse il giudizio più deciso e favorevole sull’allestimento di Scarpa per Antonello. E si erano occupati di Antonello anche studiosi stranieri, che tentavano di ampliare le conoscenze sulle sue origini e sui suoi maestri in età giovanile, oppure di fare accostamenti con la pittura veneta, con i Bellini o con un autore come Carpaccio.

 

M.I. Ha già ricordato che nel momento stesso in cui propose a Scarpa di occuparsi dell’allestimento gli disse che non ci sarebbe stato compenso, se non un semplice rimborso spese. Tuttavia alla fine dei lavori lei riuscì ad ottenere una macchina con autista che accompagnò Scarpa e la moglie in giro per la Sicilia, per un breve tour dell’isola.

R.C. Per Carlo Scarpa la mostra di Antonello fu un’occasione di vedere ufficialmente riconosciute le proprie qualità, qualità di cui lui stesso non aveva ancora piena consapevolezza. Dentro di sé sentiva di essere una “punta”, un’eccezione nel campo della progettazione architettonica, però gli mancava ancora questo riconoscimento. Non bisogna dimenticare la sua formazione anticonvenzionale e la sua adesione non settaria a movimenti o a tendenze, che però non gli impedì di aderire all’Associazione per l’Architettura Organica e – questo sì molto importante – al proclama per il Movimento moderno.

Non c’era un conforto di opinione. Ho già avuto occasione di ricordare che alla vigilia del vernissage si seppe che sarebbe venuto a visitare la mostra Cesare Brandi. Quella notte, mentre lavoravamo alle ultime cose, Carlo mi assillava continuamente con un racconto che si era creato nella mente: «Adesso viene Cesare Brandi, criticherà questo e dirà quest’altro…». Io dicevo: «Carlo, non ti preoccupare, perché mi pare che la mostra sia venuta benissimo e Brandi ti farà i suoi rallegramenti». E così fu, e i rallegramenti non furono solo di Cesare Brandi ma anche di Longhi e di Bernard Berenson, che si scomodò eccezionalmente da Firenze per venire a visitare la mostra, e persino dell’ambasciatore di Svezia. Mandato da Gustavo Adolfo di Svezia, che era stato in Sicilia e aveva visto le opere di Antonello, l’ambasciatore dichiarò – a me personalmente – che si trovava lì perché il suo re gli aveva detto di venire a rendere omaggio a questa straordinaria mostra.

Con questa mostra Carlo acquistò fiducia e la sua evidente timidezza, che si manifestava in forme sproporzionate di confidenza, fu in parte attenuata. Ricordo che, durante la mostra, una volta tirò la barba al sindaco che conosceva appena. Ma Carlo era un uomo che si faceva amare da tutti, sia dai rappresentanti del potere politico o amministrativo, sia dagli artigiani, sia dai colleghi. Al termine dell’allestimento, con l’apertura della mostra, il consiglio di amministrazione approvò il bilancio definitivo e il professor Pugliatti trovò le risorse per un piccolissimo compenso, non previsto, e offrì così a Scarpa la possibilità di visitare la Sicilia. Una Sicilia che fino a quel momento conosceva solo attraverso i libri e le immagini fotografiche e cinematografiche. Pugliatti gli mise a disposizione una macchina con autista per poter fare un viaggio. Non ne conosco esattamente l’itinerario perché, dato che per cinque mesi avevo trascurato i miei impegni professionali e accademici – in quel momento ero fra l’altro impegnato con la libera docenza –, non potei accompagnarlo. Certamente però visitò Palermo e due luoghi che gli avevo suggerito io e di cui gli avevo mostrato le immagini (che avevo per averle utilizzate, negli anni immediatamente precedenti, negli allestimenti di due Mostre del turismo che avevo realizzato alla Fiera di Messina): Gela, dove poté vedere i primi restauri delle mura di Capo Soprano, e Piazza Armerina, dove da poco erano state ritrovate parti importanti della Villa del Casale.

 

M.I. Durante il soggiorno di Scarpa a Messina per l’allestimento della mostra, lei stava mettendo a punto il progetto di una piccola sede dell’Ente per il turismo a Taormina. Che ruolo ha avuto Scarpa nell’elaborazione di questo progetto?

R.C. Dato che Carlo Scarpa aveva accettato di rimanere quasi ininterrottamente a Messina – salvo non più di due scappate a Venezia per questioni urgenti –, nelle ore libere dal lavoro della mostra lo trascinavo là dove avevo degli impegni e prendevo l’occasione per fargli conoscere una parte del patrimonio culturale siciliano. Così lo portai a Taormina, dove l’intera città era un bene culturale di primaria grandezza e dove, appunto, avevo da poco ricevuto l’incarico dall’Ente provinciale per il turismo di realizzare un ufficio informazioni. Nella stessa città avevo già presentato un progetto, su incarico del principe di Galati, per il restauro e il ripristino del Palazzo Duchi di Santo Stefano. In questa occasione con Carlo ci scambiammo una promessa: io l’avrei coinvolto nella fase esecutiva del restauro del Palazzo non appena il Comune avesse approvato il progetto (l’approvazione ministeriale l’avevo già ottenuta dal Consiglio superiore delle belle arti), mentre lui mi avrebbe dato suggerimenti per il progetto dell’ufficio informazioni turistiche: insieme a una serie di schizzi volle disegnarmi una prospettiva ad acquerello dell’ambiente.

 

M.I. L’esito della mostra di Antonello e i rapporti che Scarpa aveva instaurato con Giorgio Vigni spinsero poco dopo lo stesso soprintendente alle Gallerie e alle opere d’arte della Sicilia ad affidargli il progetto della sistemazione museale di palazzo Abatellis in Galleria Nazionale della Sicilia. Questo progetto vi offrì la possibilità di lavorare ancora insieme?

R.C. In quel periodo avevo elaborato tre progetti per Taormina: il progetto di restauro della chiesa madre di Taormina, in seguito realizzato dalla Soprintendenza ai Monumenti di Catania; il restauro della Badia Vecchia, per conto della Soprintendenza di Catania allora diretta da Giuseppe Giaccone; e quello del Palazzo Duchi di Santo Stefano ripristinato a residenza della famiglia dei principi di Galati. Per quest’ultimo progetto Carlo Scarpa si era impegnato a tornare in Sicilia oltre che a verificare la possibilità di adottare, nelle sale del piano nobile dove era andato perduto completamente, un soffitto che in quel momento si vendeva a Venezia.

Le prospettive immediate erano queste, e la situazione a me piaceva molto perché avevo sempre coltivato la speranza di portare in Sicilia i grossi nomi dell’architettura italiana. Avevo già tentato, invano, di unirmi in studio a due dei giovani vincitori del concorso per le Fosse Ardeatine a cui si sarebbero dovuti associare Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi. Seguì il mio tentativo, questa volta riuscito, di persuadere Giuseppe Samonà a tornare a lavorare in Sicilia, dopo che se ne era allontanato non avendovi trovato né il successo che la sua prorompente energia vitale in campo architettonico meritava né la possibilità di esprimersi totalmente.

L’idea di lavorare con Carlo quindi mi piaceva molto. Era un periodo – questo – in cui eravamo costantemente in contatto, anche perché gli artigiani messinesi, che erano rimasti entusiasti della collaborazione con un architetto che non ordinava ma ricercava insieme a loro la soluzione migliore ai problemi e il miglior risultato dell’opera trattandoli da pari a pari, mi chiedevano continuamente notizie. Una volta che Scarpa venne in Sicilia in treno, perché chiamato imperiosamente da Vigni a finire i lavori di Palazzo Abatellis, vollero essere informati di quando sarebbe passato da Messina e vennero tutti con me alla stazione per fare festa a Carlo.

 

M.I. Durante il lavoro di Palazzo Abatellis lei e Carlo Scarpa vi incontravate?

R.C. No, non ci incontravamo perché io non avevo occasioni di venire a Palermo. Oltretutto non volevo interferire, non volevo che sembrasse che la mia esclusione dal progetto potesse avere ingenerato sentimenti che in realtà non esistevano. Solo che, dietro l’insistenza di Vigni (a sua volta sollecitato dal Ministero) perché si ultimassero i lavori, parte di quello che Carlo Scarpa probabilmente intendeva fare a Palazzo Abatellis, cioè affinare i dettagli espositivi di tutte le opere e non solo quelle principali come l’Eleonora d’Aragona del Laurana, non poté realizzarlo. Si trovò invece a fare ciò che detestava e dichiarò più volte di detestare, vale a dire ricorrere a soluzioni già usate e non progettate per il caso specifico: i supporti di alcuni quadri e delle croci bifronti sono gli stessi realizzati per la mostra di Antonello.

In ogni caso, Palazzo Abatellis dimostra quanto dicevo poc’anzi, cioè che dall’esperienza di Messina Carlo Scarpa ebbe in premio il proprio “lancio” definitivo, un’entusiastica accoglienza della critica e la possibilità di realizzare questa Galleria, un’occasione di lavoro che lo ripagò anche di quanto io non fui capace di offrirgli con i progetti per Taormina.

 

M.I. I progetti della mostra di Antonello e di Palazzo Abatellis sono stati conclusi in tempi strettissimi, a negare il “mito” dei tempi lunghi che si è invece creato intorno alla figura di Scarpa. Cosa ne pensa per quella che è stata la sua esperienza?

R.C. Come ho accennato, quando studiava dei dettagli Carlo Scarpa partiva sempre da esperienze già fatte, per poi allontanarsene e adattarsi al caso specifico. Considerava riprovevole lasciarsi convincere – «per pigrizia» diceva – a riprendere tale e quale un dettaglio già realizzato; per lui ricalcare le cose invece di modificarle continuamente rappresentava l’aspetto peggiore del professionismo. Carlo aveva bisogno di fare ogni volta questa verifica e poi di andare oltre. La pieghettatura del cemento al cimitero Brion, ad esempio, è un motivo usato da prima e poi, ancora, più avanti nel tempo, però in maniera sempre diversa. Scarpa non ammetteva di lasciarsi andare al professionismo, non voleva dire «l’ho già fatto», come invece accadeva per quasi tutti i suoi contemporanei che prendevano un libro e dicevano «qua mi metti questa finestra, qua questa porta, qua la scala», ecc. I suoi tempi erano dettati dalla necessità di rielaborare le cose per dar loro veste nuova, valori formali e artistici nuovi. Quindi ogni occasione, grande o piccola che fosse, che si trattasse del Museo di Picasso a Parigi o della casa dell’artigiano o del commerciante veneziano, gli richiedeva lo stesso impegno perché era un rapporto suo con l’opera che progettava.

 

M.I. Per un lungo periodo, circa vent’anni, dopo la mostra di Antonello a Messina, non avete più avuto occasioni di collaborazione. Quali sono stati i vostri rapporti in quegli anni? Avete continuato a frequentarvi, e in che circostanze?

R.C. Ci siamo frequentati per molti anni, infatti ero sempre presente mentre Carlo Scarpa lavorava alle sue opere fondamentali a Venezia. C’ero quando stava finendo il Negozio Olivetti in piazza San Marco, quando stava completando la mostra Venezia e Bisanzio a Palazzo Ducale, ecc. Ricordo che un anno fui chiamato a far parte della commissione giudicatrice per il concorso del Piano regolatore di Abano Terme. Era settembre e mi trovavo a Roma, in vestito di tela e senza soprabito, quando mi chiamarono per partecipare alla riunione che ci sarebbe stata l’indomani; così presi un treno e andai. Dal treno vidi che sui Colli Euganei c’era la neve, perciò invece di scendere a Padova proseguii fino a Venezia, andai in Rio Marin a casa di Carlo Scarpa e lo pregai di prestarmi un soprabito per andare ad Abano. Questo per dire che ci furono sempre tante occasioni d’incontro. A lui piaceva che fossimo insieme per spiegarmi certe scelte progettuali che aveva fatto. A Castelvecchio, per esempio, ho potuto godere della sua illustrazione del progetto e dell’opera finita e, nell’occasione, di una meravigliosa lezione sulla pittura del Quattrocento e su Pisanello, a testimoniare ancora una volta di come Scarpa studiasse le opere da esporre.

 

M.I. Prima ricordava la visita al Negozio Olivetti e mi è tornata in mente una nostra conversazione precedente in cui accennò al fatto che Scarpa le aveva chiesto della possibilità di utilizzare l’ossidiana per il pavimento del negozio.

R.C. Sì, inizialmente Carlo aveva pensato di utilizzare l’ossidiana di Lipari. Volle delle indicazioni e mi chiese se secondo me si potesse usare. Purtroppo dovetti dirgli che l’ossidiana non può essere arrotata perché si smeriglia superficialmente e diventa bianca, di un bianco assoluto. A Messina avevamo già fatto esperimenti per poter usare questo meraviglioso materiale, ma con esiti negativi.

 

M.I. Quando, nel 1972, l’Università di Palermo le affidò l’incarico del recupero di Palazzo Chiaramonte come sede del rettorato, lei pensò subito a coinvolgere Scarpa che a sua volta, ricevuto l’incarico del nuovo Museo di Messina, aveva pensato a lei per ricostruire il tandem della mostra antonelliana.

R.C. Per circa dieci anni dopo la mostra di Antonello ci siamo visti e sentiti continuativamente; dopo, ognuno preso dai propri impegni, ci siamo un po’ perduti. Nel 1972, quando si presentò l’occasione del restauro di palazzo Chiaramonte a Palermo, mi sembrò opportuno ripetere l’esperienza messinese facendo un passo indietro e associandomi a una persona che potesse garantire il massimo della qualità possibile. Anche perché questo lavoro era nato in polemica con la Soprintendenza che, avendo imboccato la strada viollet-leduchiana dell’imitazione stilistica, non aveva persuaso la commissione universitaria incaricata di esaminare il progetto. Di questa commissione facevo parte anch’io come docente di restauro, e volevo assicurare al lavoro una qualità rispettosa della più avanzata teoria del restauro, quella che allora era di Cesare Brandi, che io condividevo appieno e che sarebbe diventata norma con la Carta del Restauro. In base al mio ruolo nella commissione, dovevo garantire che Carlo non si sarebbe lasciato andare a certe scelte istintive, anche formali, che contrastavano con tale teoria. Ad esempio, lui avrebbe voluto vedere completato il terzo piano di palazzo Steri, così come aveva ricostruito la scaletta sullo spigolo nordorientale del cortile di Palazzo Abatellis, quella scaletta che sembra autentica ma non lo è. Ma io lavoravo nel rispetto della teoria di Brandi, e lui si adattava perfettamente. Bisogna anche dire che Carlo non accettò di collaborare appieno al progetto perché in quel periodo aveva troppi impegni, anche di carattere internazionale, per potersi dedicare completamente a questo progetto. Così accettò soltanto di offrire una consulenza, che comunque si protrasse fino alla sua scomparsa: una settimana prima di partire per il Giappone Scarpa era a Palermo per lo Steri. E mentre era qui riceveva offerte di ulteriori lavori, come ad esempio la collaborazione che Gianni Pirrone gli propose per il Teatro Massimo di Palermo e che ritenne di non poter accettare.

 

M.I. Del progetto per lo Steri esistono due differenti versioni. Una iniziale, di massima, che prevedeva tra le altre cose la realizzazione di un soppalco nella sala delle armi e il camminamento coperto nel loggiato, e una seconda che con successive varianti fu portata a compimento. Come mai la prima versione fu accantonata?

R.C. Sui lavori di restauro condotti dalla Soprintendenza a palazzo Chiaramonte c’erano state, ed erano ancora in corso, varie polemiche. La commissione universitaria sostenuta dal rettore del tempo era dell’idea di approfittare del fatto che era esaurita la tranche di finanziamento messa a disposizione della Soprintendenza dall’Università, per assumere in prima persona la conduzione del progetto. Il Ministero concesse così all’Università – in deroga alle norme vigenti che sottoponevano il palazzo, di proprietà statale, al controllo della Soprintendenza – di occuparsi direttamente del progetto e della conduzione dei lavori che venivano ora affidati alla cattedra di restauro della Facoltà di Architettura di cui ero titolare.

Un’altra polemica, tutta culturale e molto raffinata, animava poi due personaggi importanti e cioè Leonardo Sciascia e Cesare Brandi. La discussione era nata proprio intorno ai lavori della Soprintendenza che aveva cominciato a demolire le celle dei carcerati dell’Inquisizione in attesa di giudizio. Questo fatto aveva scatenato le ire di Sciascia per il quale il restauro avrebbe dovuto privilegiare l’aspetto storico-culturale e quindi conservare un “documento” di estrema importanza quale erano le celle. Brandi si trovò così a dover verificare un punto fra i più difficili e discutibili della sua teoria, dove c’era una chiara concorrenza tra necessità estetiche e morfologiche ed esigenze di carattere storico. Data l’importanza e l’unicità di questo edificio trecentesco così relativamente ben conservato, Brandi finì per autorizzare lo sgombero della sala delle Armi, privilegiandone l’architettura ed eliminando le carceri anche se con l’obbligo di conservarne la memoria.

Il nostro progetto dovette tener conto di questa polemica e offrire soluzioni coerenti con la tesi che avevamo deciso di sposare, e cioè a dire la teoria di Cesare Brandi. Tuttavia abbiamo tentato di tenere insieme le sue istanze, che prevedevano la liberazione della sala, con quelle portate avanti da Leonardo Sciascia, assecondando allo stesso tempo un’esigenza implicita nella progettazione di Carlo Scarpa, vale a dire di poter vedere un oggetto da diversi punti di vista. La nostra idea era di realizzare un grosso grigliato che lasciasse leggere lo spazio della sala in trasparenza, con una scala in legno e ferro per spostarsi, affacciarsi sul cortile, visitare in quota le pitture dei carcerati che erano rimaste sulle pareti o quelle già strappate che vi si sarebbero potute ricollocare, per poi proseguire il percorso di visita fino alla Sala Magna che era destinata alle cerimonie: conferimenti di laurea ad honorem, apertura dell’anno accademico, ecc. Si dovevano conciliare le esigenze di un percorso monumentale con le attività quotidiane del rettorato. Va inoltre ricordato che la concessione di palazzo Chiaramonte all’Università da parte del Ministero dei Beni Culturali era vincolata alla realizzazione di uno spazio museale interno. La soluzione del grigliato non convinse pienamente Cesare Brandi, forse perché gli sembrava una resa a Sciascia nella garbata polemica che avevano avuto, e alla fine si oppose alla sua realizzazione.

 

M.I. Del cortile del palazzo si conserva un bellissimo disegno di Scarpa che prevedeva una pavimentazione con veli d’acqua. Come mai questa ipotesi fu accantonata?

R.C. Dopo la morte di Carlo Scarpa, il Consiglio di amministrazione, su suggerimento di un autorevole – e a mio avviso anche un po’ prepotente – consigliere, sostenne la testi che questo progetto non si sposava con l’architettura del Trecento e quindi non l’autorizzò.

 

M.I. Il disegno e la realizzazione dell’androne di accesso da piazza Marina sono invece interamente attribuibili a Carlo Scarpa?

R.C. Quello dell’androne è un disegno da attribuire completamente a lui, fui io a decidere che se ne occupasse per intero. Il progetto dell’androne diede a Fabio Lombardo, un giovane architetto che lavorava nel mio studio e che consideravo molto in gamba, l’occasione di lavorare insieme a Carlo Scarpa e di potergli poi chiedere, su mio suggerimento, una collaborazione al progetto del negozio di abbigliamento Giglio In sempre a Palermo, in via della Libertà. Scarpa gli dette dei suggerimenti e Fabio finì col trasferirsi a Venezia dove lavorò anche insieme a Tobia Scarpa: con lui disegnò la tomba di Carlo nel cimitero di San Vito.

 

M.I. La collaborazione di Scarpa al progetto di palazzo Chiaramonte si conclude nel 1978 con la sua improvvisa scomparsa, mentre il lavoro, come abbiamo accennato prima, è andato avanti fino al 1998. Quali sono i criteri e le scelte che ha seguito per portare a compimento il progetto?

R.C. Le decisioni che ho preso mi sono costate grandi difficoltà e molta sofferenza: involontariamente io stesso sono incorso nell’inconveniente, più volte imputato a Carlo Scarpa, della lentezza. Nei fatti è una circostanza più apparente che reale perché per qualche tempo l’Università non ebbe finanziamenti e procedeva, come si dice, «a spizzichi e bocconi». Per questa ragione decisi di posticipare il restauro della Sala Magna, che richiedeva l’impegno economico maggiore, a conclusione di tutti gli altri lavori, e di concentrare invece le poche risorse disponibili sugli altri ambienti del palazzo e permettere così all’Università di entrare operativamente allo Steri. Decisi, insieme ai collaboratori Camillo Filangeri e Nino Vicari e con l’aiuto di Fabio Lombardo, di lavorare partendo dagli innumerevoli disegni, schizzi, appunti che avevamo messo giù ogni volta che Carlo veniva a Palermo, di progettare tutto quello che serviva al completamento dei lavori e di utilizzare, dove possibile, maestranze che avessero già lavorato per Carlo Scarpa.

Grazie alla mia conoscenza di Eugenio De Luigi, che risaliva ai tempi dell’inaugurazione della mostra Venezia e Bisanzio a Palazzo Ducale (quando partecipai anche al pranzo ufficiale con lui e sua moglie, insieme a Carlo), decisi di chiamare lui a realizzare gli stucchi e i marmorini, che egli era capace di fare con piccoli segreti artigianali e grande maestria. Ormai restava ben poco da fare sulle strutture, si trattava quasi di un lavoro di allestimento, di arredo permanente delle sale e degli altri ambienti, e decisi di fare un omaggio a Carlo Scarpa utilizzando il più possibile arredi disegnati da lui, dal figlio Tobia e, dove ciò non fosse possibile, ricorrendo alle opere di grandi designer. Allo Steri convivono, o meglio convivevano, molti degli arredi che hanno fatto la storia del design. Oggi sarebbe un patrimonio da museo del design contemporaneo se l’Università l’avesse mantenuto; purtroppo non lo ha fatto, la decadenza attuale mi amareggia terribilmente.

 

M.I. Tornando all’idea di museo, negli anni in cui avete lavorato con Scarpa allo Steri, l’Università acquisì in dono il famosissimo quadro di Guttuso La Vucciria, e si presentò quindi l’occasione di allestire questo grande dipinto all’interno del Palazzo.

R.C. Accadde una cosa straordinaria, di quelle che possono succedere soltanto nel nostro ambiente: un giorno, mentre c’era Carlo Scarpa qui a Palermo, arriva anche Fabrizio Clerici, mio compagno di corso alla Facoltà di Architettura di Roma, con il quale avevo studiato l’ultimo anno e fatto gli esami di abilitazione professionale al Politecnico di Milano. Soltanto allora scoprii che Clerici, che si era laureato nel 1937 con un progetto di palazzo sul Canal Grande, conosceva bene Scarpa perché per la sua tesi Carlo aveva realizzato dei vetri soffiati a Murano, vetri che Fabrizio mi aveva mostrato senza però dirmi chi ne fosse l’autore. In quei giorni Fabrizio Clerici si trovava a Palermo perché si inaugurava una sua mostra di quadri: infatti, dopo un inizio d’attività come architetto proprio in Sicilia, a Catania, distratto da esigenze di carattere spirituale si era dedicato alla scenografia e alla pittura, ed era diventato un importante pittore surrealista. Clerici è uno di quegli artisti, architetti, pittori, scenografi di cui in Sicilia si conservano cose pressoché sconosciute: le scenografie realizzate per il Teatro Massimo per esempio non mi risulta siano state mai pubblicate. Facemmo un consulto a tre – io, lui e Carlo – per decidere dove esporre questo quadro di Guttuso, tanto grande che ogni volta che si muoveva per una mostra doveva essere smontato dal telaio. E la conclusione a cui arrivammo tutti e tre è che la cappella palatina dello Steri, dove io avevo liberato l’absidiola con i lacerti di pittura nel catino, fosse l’ambiente più opportuno perché il dipinto potesse prendere la luce di levante e di mezzogiorno. Grazie a un perno centrale il quadro poteva essere facilmente orientato di qualche grado per avere sempre la luce migliore. Purtroppo, invece, La Vucciria oggi è finita nelle cantine dello Steri.

 

M.I. Quando ricevette l’incarico di Palazzo Steri e chiamò Carlo Scarpa per coinvolgerlo nel progetto, Scarpa a sua volta stava chiamando lei per proporle un’altra collaborazione.

R.C. Proprio così, risponde al telefono e mi dice: «Ti stavo chiamando perché Vigni vuole ripristinare il tandem della mostra di Antonello». Vigni, che nel frattempo era diventato Ispettore Centrale presso il Ministero, e Carandente, che a sua volta era diventato Soprintendente, avevano suggerito che il Museo Nazionale di Messina fosse affidato ai due progettisti della mostra di Antonello.

 

M.I. Le faccio rivedere questa fotografia, scattata da Fabio Lombardo in quel periodo, che la ritrae insieme a Scarpa proprio a Messina.

R.C. Questa è una delle fotografie scattate durante i sopralluoghi al museo esistente, il museo allestito da Salinas subito dopo il terremoto del dicembre 1908 e a cui lavorò anche mio padre. Sulla spianata di San Salvatore dei Greci furono raccolti i resti di diciannove palazzi, chiese, conventi, più tutta una serie di altri frammenti, che subito dopo il terremoto Salinas sistemò pazientemente, salvandoli da furti e saccheggi.

Purtroppo i finanziamenti stanziati per il nuovo Museo di Messina erano analoghi a quelli destinati a un qualsiasi museo di provincia, quindi assolutamente inadeguati alle necessità di un museo sui generis, dove la gran quantità di materiale architettonico da esporre imponeva un progetto museologico particolare. La nostra idea di museo, fortunatamente, coincideva con quella dell’allora direttrice, la dottoressa Campagna Cicala, che voleva un museo organizzato non per tipologie – pittura, scultura, manoscritti, architettura ecc. – ma secondo un percorso che permettesse al visitatore una visione integrata di tutte le opere significative di un determinato sviluppo cronologico, un percorso che potesse essere allo stesso tempo sintetico per il turista culturale e completo per lo studioso. Non era prevista nessuna porta, ma una successione articolata di spazi in un rapporto continuo tra interno ed esterno, fra lo spazio del museo e il paesaggio, il mare dello stretto. Volevamo fare un museo che fosse esemplare per la museografia.

 

[R.C. descrive il progetto del museo facendo riferimento a un modello ligneo].

 

R.C. Originariamente Carlo Scarpa aveva pensato – e alcuni studi lo testimoniano – a un museo a padiglioncini, ispirato all’ampliamento della Gipsoteca canoviana di Possagno che lui stesso aveva curato, e che è una delle cose più belle che io conosca di Carlo. Ricordo che mi ci volle accompagnare per spiegarmi le sue scelte. Era importante per lui comprendere le opere d’arte – e quindi capire Canova, Antonello, Pisanello, ecc. – prima di pensare al loro allestimento. Questo era Carlo Scarpa, un progettista che non restava al di fuori delle opere ma che nei loro confronti si poneva come conoscitore, approfittava della sua formazione nelle belle arti, del suo essere contemporaneamente cultore di pittura, scultura, architettura ecc., per impadronirsi anche dei loro aspetti più segreti. Soltanto guardando con attenzione un oggetto, studiandolo a fondo per potervisi adeguare, possono venire fuori certi capolavori come l’appoggio del busto di Eleonora d’Aragona a Palazzo Abatellis. L’idea dei piccoli padiglioni espositivi però fu presto abbandonata in favore di una soluzione più compatta, con un percorso destinato alle normali visite turistiche e, come ho già accennato, uno rivolto agli specialisti. L’impianto del museo voleva ricreare nel visitatore le stesse emozioni che si provano quando ci si muove in un centro storico, un centro storico che Messina non aveva più e che si stava lentamente ricostituendo intorno a quel poco che era sopravvissuto e a quanto era stato fatto subito il dopo il terremoto. Nel nuovo museo, necessariamente di grandi dimensioni, si volevano far ritrovare le stesse sensazioni che gli abitanti avevano avuto prima, quando Messina era una città bellissima, con architetture grandiose. Il fulcro del nostro progetto era il grande lucernario a ridosso delle absidi, a illuminare una grande “piazza” coperta a più livelli. Al museo erano conservate le statue originali della fontana di Nettuno realizzate dal Montorsoli (la fontana attuale è tutta fasulla, è una copia): Scilla e Cariddi, le due ninfe marine poppute, e Nettuno, che nel nostro progetto divenne il perno di questo gruppo di opere che si sarebbe visto sia dal basso, sia a livello, sia dall’alto, sotto la grande cupola vetrata, moderna, una specie di Crystal Palace. Sui piani inclinati del “fossato” che circonda il livello inferiore si dovevano montare, senza malta, i portali delle vecchie chiese e dei vecchi palazzi salvati da Salinas, semplicemente appoggiati così come li aveva ricomposti la direttrice del museo Accascina con l’aiuto di mia sorella prima della mostra di Antonello. Il canale a livello del fossato non faceva altro che accentuare il riverbero della luce sui frammenti d’architettura esposti e i riflessi delle opere sull’acqua. Riflessi che a me ricordavano certamente Venezia ma anche il Taj Mahal, che nella caligine del terribile caldo umido dell’India prende particolari iridescenze, e i cui marmi cambiano colore nei riflessi sul fiume che vi scorre sotto. Carlo non rinunciava mai ad avere l’acqua; in questo senso una delle sue opere più belle, o per lo meno più suggestive, secondo me è il Padiglione Italia ’61 dove le cascate di vetri di Venini e i colori che si rispecchiavano nell’acqua non erano altro che i riflessi sulla Laguna, che sono poi i riflessi di Messina. Carlo aveva notato che d’estate a Messina il mare è fermo e tutte le navi che passano si riflettono con le loro luci su questa superficie mossa appena dallo sciabordio delle eliche.

 

M.I. Un’altra cosa che trovo interessante del progetto, che ha una ricaduta sui percorsi espositivi, è la presenza di una sala, proprio all’ingresso del museo, riservata alle esposizioni temporanee.

R.C. Questa sala nasceva da un’esigenza concreta, cioè dal fatto che nel vecchio museo si conservava un gran numero di reperti archeologici in attesa di sistemazione definitiva. La sala temporanea, a leggeri gradoni discendenti – un’idea che poi ripresi nel progetto di un piccolo museo a Sciacca –, avrebbe potuto essere utilizzata per esporre questi reperti finché non si fosse data loro una collocazione adeguata, poi sarebbe stata usata per le mostre temporanee, anche di opere non esposte e conservate nei magazzini che potevano mostrarsi al pubblico a rotazione. La sala era concepita in modo da poter essere autonoma rispetto al museo.

 

M.I. Con Carlo Scarpa effettuaste un sopralluogo dell’area del futuro museo, prendeste visione sia dei reperti architettonici che di tutto il catalogo delle opere pittoriche che si dovevano esporre. Successivamente, dopo una prima fase di lavoro a distanza, nell’agosto del 1974 lei, insieme a Fabio Lombardo, si trasferì a Vicenza dove per undici giorni lavoraste alla definizione del progetto. Cosa ricorda di questa fase del lavoro?

R.C. Carlo Scarpa aveva dovuto lasciare la casa di Rio Marin a Venezia per questioni di salute e aveva scelto di andare a stare ai Nani, cioè a dire in una dependance della villa del conte Valmarana, a Vicenza. Ricordo che durante il nostro soggiorno il conte ci invitò a pranzo ospitandoci, con mia grande meraviglia, in un salone interamente dipinto da Tiepolo dal soffitto a terra. Carlo comunque risiedeva in una dependance, un edificio su un terreno acclive dove c’erano la casa e lo studio; vi si era trasferito da pochissimi giorni quindi noi avevamo tardato la nostra partenza. Carlo aveva già preparato una serie di schizzi e durante il nostro soggiorno, undici giorni di seminario ristrettissimo in cui si lavorava fino alle 10 di sera, venne fuori il progetto preliminare del Museo di Messina. Scarpa – ripeto – era partito da un’ipotesi a padiglioncini per poi arrivare alla conclusione che bisognava invece sviluppare un progetto accentrato, come quello che poi abbiamo elaborato. L’idea di utilizzare dei piani inclinati per l’esposizione dei reperti fu mia, e poi la trovai attuata da Stirling in Inghilterra.

Io feci anche da intermediario tra l’aspetto museografico che andavamo sviluppando e quello museologico dell’allora direttrice del museo. Carlo disegnò i sei cartoni del progetto di massima – piante, prospetti e sezioni – tutti a matita colorata, sull’esempio di quelli di Frank Lloyd Wright per il Masieri Memorial che aveva trovato a Venezia durante una delle soste dai lavori della mostra di Antonello e che mi portò al suo ritorno a Messina. Come è ormai noto Wright strumentalizzava i suoi allievi, nel caso del Masieri Memorial fece loro disegnare le sei copie di cui aveva bisogno tutte in originale, tutte a matita colorata, e Carlo mi portò questo grosso album da vedere in anteprima. Il Museo di Messina fu disegnato proprio su questo esempio, e io ne ho conservato i cartoni fin quando non li diedi a Tobia perché li versasse nell’Archivio Scarpa.

 

M.I. Conserva ancora disegni autografi di Scarpa dei progetti fatti insieme?

R.C. Conservo qualche schizzaccio della mostra di Antonello che ho ritrovato recentissimamente, alcuni disegni del padiglione per l’Ente del turismo che ho realizzato a Taormina, degli studi per lo Steri e uno dei cartoni colorati del museo di Messina che Carlo volle rifare.

 

M.I. Tornando al Museo di Messina, cosa successe dopo che presentaste il progetto?

R.C. Al rientro a Palermo, con Fabio Lombardo preparammo tutti gli elaborati di progetto necessari. Purtroppo, come ho già accennato, il progetto di massima commissionato dalla Cassa per il Mezzogiorno aveva ricevuto un finanziamento standard, analogo a quelli stanziati per i piccoli musei, un importo di circa un miliardo e trecento milioni di lire, assolutamente insufficiente per un progetto di questo genere. Dopo la presentazione del progetto la Cassa del Mezzogiorno fu chiusa e tutti i finanziamenti già assegnati passarono dallo Stato alla Regione Siciliana. E la Regione cosa fece? Accantonò il progetto Scarpa-Calandra e bandì un appalto-concorso a cui noi naturalmente decidemmo di non partecipare.

 

M.I. Abbiamo sinteticamente ricostruito un percorso che dai primissimi anni Cinquanta arriva fino alla morte di Scarpa. Un percorso fatto di collaborazione ma anche di amicizia, affetto e stima reciproca che vanno oltre le reali occasioni di lavoro. Cos’era che avvicinava il vostro modo di intendere l’architettura?

R.C. Non è facile per me tirare delle conclusioni, anche per via delle mie vicende personali. Il fatto che abbia studiato alla scuola romana, conservatrice, accademica o quasi, una scuola di stampo vitruviano con tutti i suoi pregi e i suoi difetti – ma dove a prevalere erano forse più i secondi che i primi –, ha inciso in modo profondo sulla mia formazione. Scarpa invece veniva dalle Belle Arti ed entrò all’Università come assistente del professor Cirilli, un conservatore della tradizione neopositivista e neoaccademica degli anni Venti. Infatti, nella nuova Università di Venezia rifondata da Giuseppe Samonà, che subentrando proprio a Cirilli aveva rinnovato l’intero corpo accademico, Carlo era considerato appartenere all’ala conservatrice. Ma riuscì presto a conquistarsi la stima di tutti i colleghi e, com’è noto, finì col diventare professore di composizione e poi rettore.

Quando iniziammo a lavorare alla mostra di Antonello ci conoscevamo tutto sommato pochissimo, eravamo entrambi iscritti all’APAO ma non avevamo mai avuto occasione di parlare al di là di qualche scambio di battute nei vari congressi. Probabilmente il punto d’incontro tra me e lui, la sintonia che scattò subito tra noi, si devono al mio dna e al fatto che mio padre in Sicilia era stato un fautore dell’evoluzione dal Liberty, attraverso la Scuola di Vienna, al Movimento moderno. Carlo Scarpa, che era un grande estimatore della Scuola viennese, fu anche, senza preconcetti e contrapposizioni, uno dei firmatari dell’appello per l’architettura razionalista: gli architetti non condannavano il passato in toto ma ne recepivano ciò che poteva servire a un’evoluzione più cosciente, più coerente, più comprensiva delle nuove concezioni architettoniche. In questo senso abbiamo trovato – credo – una coincidenza di opinioni e un’intesa.

Prima ho ricordato che Scarpa portò a Messina le tavole del progetto di Frank Lloyd Wright per il Masieri Memorial perché le vedessi. Bene, una delle scoperte che feci nel 1938-1939, durante i miei studi alla Columbia University di New York, fu proprio quella di Wright e dei suoi rapporti con la cultura viennese; non è un caso che Frank Lloyd Wright, che nel 1909 venne in Europa, avesse cominciato ad accogliere nel suo studio gli architetti viennesi, Neutra e Schindler, che si trasferivano in America lasciandosi alle spalle la crisi culturale, ma anche politica, della scuola viennese. Quasi contemporaneamente a me, per altra via, anche Bruno Zevi scopriva l’architettura di Frank Lloyd Wright e, rientrato in Italia mentre io ero ancora prigioniero nei campi nazisti, fondò, proprio spinto dalla conoscenza di Wright e del movimento organico, l’Associazione per l’Architettura Organica (APAO) a cui sia io che Scarpa abbiamo entusiasticamente aderito. A Carlo mi legava quindi, almeno inizialmente, il comune interesse per Wright; lui poi aveva anche collaborato con Angelo Masieri, che era stato in America, dove era poi tragicamente morto proprio per andare a trovare Frank Lloyd Wright a Taliesin.

 

M.I. Stilando un elenco dei collaboratori che hanno affiancato Scarpa nel corso degli anni, si può dire che lei abbia avuto con lui un rapporto privilegiato, diverso da quello di maestro-allievo che caratterizza alcune collaborazioni. A distanza di anni, che ricordo conserva di Carlo Scarpa e a cosa attribuisce il grande interesse che la critica ha in quest’ultimi anni tributato al suo lavoro?

R.C. Nel primo periodo, come succede spesso nel campo delle arti, Scarpa ebbe pochissimi riconoscimenti e scarsissima confidenza anche da parte di taluni colleghi; era messo un po’ in disparte perché non aveva una formazione razionalista o funzionalista. Il suo modo di fare architettura affondava invece le radici in una tradizione, quella austriaca di Hoffman e di Wagner, che solo recentemente è stata riscoperta come uno dei poli della cultura architettonica moderna. Tornando a quanto accennavo prima, continuo a pensare che dopo il Liberty, lo Jugendstil, l’Art Nouveau, sia stata la Scuola di Vienna il crogiolo di tutta una serie di idee, di intuizioni che, partendo da Vienna, investirono prima l’Olanda col Neoplasticismo, poi tutta l’Europa fino a raggiungere l’America. Quindi credo – forse sbagliando – che il fatto che Carlo Scarpa oggi goda di una letteratura enormemente maggiore di qualsiasi altro architetto italiano del Movimento moderno sia legato a questa scoperta.

Mi piace ricordare, in conclusione, la bella amicizia che legava Scarpa a un altro straordinario architetto: Mario Ridolfi. Una volta che si trovava a Messina, Carlo mi disse che al ritorno si sarebbero incontrati perché Ridolfi gli aveva chiesto consigli per la casa che si stava costruendo a Terni, vicino alla Cascata delle Marmore. Credo che i rapporti che si sono instaurati tra certi architetti siano sintomatici della loro grandezza.