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Videointervista

Franca Semi
collaboratore

luogo: Treviso, Centro Carlo Scarpa
data: 14 febbraio 2011
intervista di: Luka Skansi
durata: 00:56:43

principali opere citate: Fondazione Masieri
biografie: Franca Semi, Luka Skansi

Luka Skansi [L.S.] A quando risalgono il suo primo e ultimo contatto con Carlo Scarpa?

Franca Semi [F.S.] La prima volta che vidi Carlo Scarpa fu sulle scale dello IUAV, lo notai perché era diverso dagli altri professori, aveva un atteggiamento meno professionale, un abbigliamento poco “professorale”. Saliva per le scale sbuffando, forse era in ritardo, e fumava; aveva un cappotto di tweed e una sciarpona colorata. Mi chiesi chi fosse questo strano personaggio e qualche collega me lo disse, aggiungendo che il suo corso era molto difficile. Doveva essere più o meno il 1963, io ero già iscritta all’Università.

Il mio ultimo contatto è in un certo senso più importante, perché fu nella prima settimana di settembre del 1978. All’epoca io e l’ingegner Maschietto seguivamo i lavori del Masieri Memorial, Maschietto come direttore dei lavori e io alla direzione artistica (in sostanza firmavo il progetto per il professore). Tutti gli elaborati li preparavo io e, insieme all’ingegnere, talvolta concordavamo delle lettere che lui avrebbe spedito a me, oppure al professore e a me per conoscenza, per sollecitargli dei particolari mancanti e dare un po’ d’urgenza a Scarpa perché altrimenti rischiavamo di interrompere il cantiere. In queste occasioni ero costretta a inseguire il professore, un po’ perché era difficilmente raggiungibile, un po’ perché era forse più interessato ad altri progetti. Si deve tener conto che anche il progetto di Scarpa per la sede della Fondazione Masieri ebbe diversi problemi amministrativi, meno noti rispetto alle vicende legate alla proposta di Wright. Riuscii comunque a raggiungere Scarpa a Vicenza, nel suo studio alle scuderie di villa Valmarana ai Nani, dove lavorammo tutto il pomeriggio. Ricordo che a fine giornata, con la sua giacchettina di tela grigio scuro, mi accompagnò ad attendere il taxi e con molta amabilità si fermò a chiacchierare. Per me fu un’occasione particolare perché mi resi conto di essere cresciuta; non mi trattò più da ragazzina come quando ero sua assistente, il professore era già in pensione. È l’ultimo ricordo che ho di lui e risale alla prima settimana di settembre, o forse al 20 del mese: nel mio studio ho trovato traccia dei materiali che avevo già elaborato e dei particolari che mi diede Scarpa quel giorno.

 

L.S. Vi siete frequentati con continuità in questo intervallo di anni?

F.S. Ho avuto la possibilità di conoscere il lavoro di Carlo Scarpa prima da studente, poi da assistente alla didattica e in seguito da collaboratrice professionale. Da studente ho seguito due suoi corsi di Arredamento e architettura degli interni; si lavorava in aula e il professore ogni tanto passava. Ricordo il mio successo, riconosciuto anche dai colleghi, quando presi 24/30. Oggi è considerato un voto basso, ma al tempo un 24 nel corso di Carlo Scarpa era un ottimo voto. Anche il secondo esame mi diede soddisfazione, ebbi qualcosa di più, non ricordo se 26 o 27.

Successivamente al professore venne affidato uno studio presso lo IUAV, era lo spazio che una volta veniva chiamato “Vajont” perché il professor Samonà e il suo gruppo di assistenti vi avevano elaborato il progetto urbanistico e architettonico di Longarone in seguito alla tragica frana. Fu in questo spazio che il professore trasferì il gruppo di lavoro per la progettazione del teatro Carlo Felice di Genova. Io passai sei mesi nello spazio Vajont a lavorare a quel progetto, assieme ad altri due colleghi, Giuseppe Pagnano e Manlio Brusatin; fu un’esperienza abbastanza interessante. C’erano divergenze di vedute tra i titolari del progetto, l’ingegner Zavelani Rossi, l’ingegner Luigi Croce e Scarpa. L’eleganza grafica di Carlo Scarpa conviveva con le orribili copie eliografiche in scala 1:50, schematiche e di difficile interpretazione, che ci forniva Zavelani Rossi, disegni che spesso non reggevano alla verifica, non corrispondevano a quello che avrebbero dovuto rappresentare.

Contemporaneamente ero impegnata con un gruppo di colleghi studenti nell’elaborazione di un progetto che avrebbe potuto condurre alla tesi di laurea. In linea di principio non ho niente in contrario rispetto al lavoro di gruppo all’università, bisogna pur imparare a lavorare assieme agli altri, tuttavia credo che la sua efficacia dipenda dalle forme di collaborazione: gruppi di otto-nove studenti sono decisamente troppo numerosi e il lavoro diventa ingestibile. Così allentai il mio rapporto con i colleghi, dedicandomi alla progettazione del teatro Carlo Felice. Successivamente, in una specifica occasione, Scarpa mi chiese se avevo pensato alla tesi di laurea. Sentirmelo dire per me fu un’emozione… interpretai questa sua domanda come una disponibilità a farmi da relatore. Anche per questo abbandonai il gruppo di colleghi, decisione che mi costò un ritardo nel percorso di laurea di ben 3 anni. Quando iniziai a lavorare alla tesi Scarpa mi disse «ti laureerai quando lo dirò io», il che voleva dire uno-due anni. Comunque, di questo ritardo non mi sono mai pentita, è stata un’esperienza molto interessante.

Al tempo molti studenti lavoravano per i professori, naturalmente a titolo gratuito, ed era un grande onore. Dopo la mia laurea (luglio 1970) lo IUAV, non disponendo ancora di un ufficio tecnico – salvo che per un geometra che gestiva le chiavi degli studi e poco più – decise di costituire una commissione per verificare la disponibilità all’uso universitario di alcuni edifici in città. La commissione, composta da Samonà, Trincanato e Scarpa, stabilì che per questo c’era bisogno di un assistente; proposta da Scarpa, iniziai a collaborare con lo IUAV: facevo i sopralluoghi con i professori, raccoglievo le carte, valutavo queste disponibilità, fu un’esperienza interessante. La mia collaborazione con la scuola si fece continua quando ottenni una borsa di studio biennale (rinnovabile) presso la cattedra del professore: da quel momento mi dedicai molto di più all’attività didattica che non all’ufficio tecnico, che avevo seguito solo per un breve periodo. Fui invitata a partecipare anche a un altro concorso. Ai tempi si diceva «vuoi partecipare a quel concorso?», e quando il professore te lo diceva, suonava bene! Forse se avessi scelto un altro professore la mia carriera universitaria sarebbe stata molto più facile: perché Scarpa delle carriere accademiche dei suoi collaboratori non si curava minimamente.

 

L.S. Che cosa significava lavorare insieme a lui? Che impressione ha di Carlo Scarpa come persona?

F.S. Lavorare con Scarpa per me era un privilegio, come probabilmente lo era per i miei colleghi lavorare con altri professori. Devo dire però che aveva il sapore dell’originalità, forse per il tipo di persona che era. Scarpa aveva due caratteri nettamente distinguibili: il pubblico e il privato. In pubblico amava molto il palcoscenico, anche noi collaboratori diventavamo oggetto delle sue battute (di me ha sempre avuto un certo rispetto perché sapeva che potevo difendermi). Nel privato era molto diverso: garbato, incoraggiante, gentile. Scarpa aveva il carattere dei grandi artisti, difficile, di chi nella vita si è completamente dedicato alla propria arte. Certo i suoi interessi spaziavano dalla letteratura alla pittura e altro, però il suo pensiero dominante era sempre orientato all’architettura.

 

L.S. Potrebbe provare, in base alla sua esperienza professionale, a tracciare un quadro della fortuna di Carlo Scarpa in Italia?

F.S. Non è facile, perché la fortuna di un artista si può intendere in diversi modi. Ho avuto uno scambio di opinioni con il direttore di una rivista molto importante, uno storico che volevo ringraziare di una recensione. Gli dissi che mi sembrava che Carlo Scarpa avesse avuto più fortuna da morto che da vivo; intendevo fortuna critica e non fortuna professionale in termini di numero di incarichi ottenuti durante la carriera. Mi ha stupito la risposta di questo direttore, che mi ha detto: «perché si deve sempre pensare che Scarpa non abbia avuto fortuna? Considerato che in un periodo di tempo breve ha svolto incarichi molto importanti…». Per conto mio, la fortuna critica di un artista è quella che gli consente di incidere sulla storia di una disciplina, di determinare modificazioni del pensiero in quel campo disciplinare; la quantità di opere prodotte non mi sembra rilevante. A me sembra che la fortuna critica che Scarpa ebbe in vita fosse limitata a frammenti della sua opera. Storici e critici – i più importanti dei quali furono i suoi committenti storici, come Magagnato, Mazzariol, Santini – hanno dato letture di frammenti, limitate a un certo oggetto architettonico, che non riconducono a un pensiero generale.

 

L.S. Negli anni in cui frequentava lo Iuav, e in seguito quando fu sua assistente, com’era considerato Scarpa – come professionista e come insegnante – dagli studenti? Di che tipo di  considerazione godeva il suo corso nello Iuav degli anni Settanta?

F.S. I suoi corsi cambiarono molto negli anni, soprattutto a causa della crescita del numero di studenti (di questo ho scritto anche nel mio libro). Verso la fine del 1969, come spesso capita in ambito universitario, fu introdotta improvvisamente una legge orribile che aprì le porte dell’università ai diplomati di qualsiasi scuola. Le facoltà di architettura si trovarono impreparate sia a ricevere grandi quantità di persone sia a capirne la formazione. Scarpa, per esempio, si trovò malissimo con molti geometri che si iscrivevano più per convenienza professionale che per ragioni di crescita personale, e quindi con una certa supponenza.

 

L.S. Quanto tempo dedicava Scarpa alle revisioni dei progetti degli studenti? Che tipo di bibliografia dava agli studenti?

F.S. Come ho detto, ci furono due diverse fasi nella didattica di Scarpa. La prima fu molto interessante perché era incentrata sul lavoro al tavolo da disegno. L’università era aperta dalle 8 di mattina alle 8 di sera, eravamo in pochi e avevamo a disposizione spazi personali. Scarpa sapeva che eravamo là, veniva fuori da orari prestabiliti e ci impartiva i suoi insegnamenti; dava molta importanza all’aspetto grafico e, come sapevano tutti, era “difficilino”, esigente. Successivamente dovette attrezzarsi in tutt’altro modo perché i corsi furono strutturati in lezioni ex-cathedra e le revisioni dei progetti da continue divennero occasionali.

In generale, i programmi del professor Scarpa furono sempre assai scarni: 20 o 30 righe che servivano a enunciare il tema di cui lui e gli assistenti avrebbero parlato durante il corso. Quanto alla bibliografia, era difficile che fosse scritta: era sicuramente consigliata ma per singoli argomenti, per particolari problematiche legate al progetto degli studenti. Con il professore fu sempre così, sia quando insegnava al tavolo da disegno sia quando faceva lezioni ex-cathedra.

Nei due momenti la considerazione da parte degli studenti fu molto diversa: inizialmente, quando ero studente io, il suo corso era considerato molto difficile e parteciparvi prestigioso e interessante, quasi una sfida: «ce la faccio!». Dopo, il corso fu ritenuto piuttosto un obbligo, un esame necessario, e i rapporti con gli studenti furono ben diversi.

 

L.S. In che fase del progetto per la Fondazione Masieri ha collaborato con Scarpa? Di che cosa si è occupata concretamente?

F.S. Al progetto della Fondazione Masieri ho lavorato fin dall’inizio, da quando Scarpa lo prese in mano. Era il 1968 ed ero ancora studente, quindi colsi l’occasione festosamente. Da allora continuai a lavorare con Scarpa come sua unica collaboratrice al progetto, a parte ovviamente l’ingegner Maschietto che si occupava delle questioni strutturali. L’ho completato, per quanto possibile, nel 1983, quando fu “inaugurata”.

Mi sono occupata di tutti e tre i progetti: dapprima avevo elaborato, sulla base di copie eliografiche, il progetto di un professore della facoltà, un progetto che fece ridere sonoramente Scarpa. Mi ricordo che disse: «Me ne occupo io». Non conosco i dettagli dell’assegnazione, è probabile che l’incarico arrivasse da una commissione, comunque Scarpa si assunse questa responsabilità e in tre giorni stese il primo progetto su due tavole. Mi telefonò dicendo «Potresti darmi una mano per qualche lucido per la Fondazione?». Io risposi subito di sì, ma bleffai perché non sapevo ancora fare questo mestiere; non fu facile affrontare questo compito con l’incompetenza di uno studente che non ha mai lavorato professionalmente. Mi disse che dovevo elaborare una serie completa di disegni da presentare in Comune: se ricordo bene si trattava di 8 o 9 disegni, piante, prospetti e sezioni. Io non ne ero ancora in grado, ma disegnai tutto, fino al tetto, sulla base dei due disegni disponibili perché altro non avevo. In seguito Scarpa bocciò il proprio progetto, disse che sembravano case d’affitto: tante stanze che seguivano l’andamento obliquo della pianta di base.

Il secondo progetto fu, per conto mio, il più interessante. Per un vincolo ambientale c’era l’obbligo di mantenere la facciata – quella poi ricostruita sulla base di un disegno di Canaletto (cosa secondo me un po’ strana) –, e Scarpa volle assumerla come un «paravento» forato attraverso il quale, da ogni camera, si potesse vedere il Canal Grande. C’è un suo disegno che indirizza verso queste particolari vedute. Per inciso, la Fondazione Masieri nacque come casa dello studente, in particolare per ospitare studentesse provenienti dal Friuli. In quel progetto Scarpa propose di realizzare un piano in più rispetto all’esistente. Quindi i solai non corrispondevano più alle finestre della facciata: le altezze interne arrivavano a 2,40 metri ed erano molto più basse che in precedenza. Scarpa interpretava tutto come uno spazio unico. Questa soluzione fu bocciata dal Comune che applicò i regolamenti edilizi senza valutare caso per caso. Anche se dietro ai regolamenti ci sono delle persone responsabili, queste finiscono per ragionare come macchinette, per esprimersi in maniera radicale, positivamente o negativamente, senza ragionare sul caso specifico; e questo provoca sempre grossi problemi ai progettisti.

A quel tempo, per conto dell’Ufficio tecnico dell’Università, Scarpa si occupò anche di una scala di sicurezza per l’Aula Magna. La scala non avrebbe servito tutti i piani dell’edificio ma soltanto il primo livello. La scala “incrociata” progettata da Scarpa prevedeva il taglio di due finestre. I calcoli furono eseguiti dall’ingegner Cocco di Treviso: immagino che tracce di questo progettino, sconosciuto ai più, si possano trovare nello studio dell’ingegnere e che l’attuale Ufficio tecnico dello Iuav non abbia più nulla. Nel mio archivio ho solo qualche fotografia dei disegni.

 

L.S. In che modo lavoravate al progetto per il Palazzetto Masieri? Quanto questo progetto ha impegnato le riflessioni di Scarpa? Il progetto è stato realizzato solo in parte: quali sono, secondo lei, le principali mancanze, quelle che oggi condizionano la leggibilità e l’integrità del progetto originario?

F.S. L’interesse di Scarpa per il progetto del Palazzetto Masieri era relativo, penalizzato dal suo prolungarsi nel tempo e da vicende esterne. Io lo inseguivo perché non aveva mai tempo. Il professore ha sempre voluto che tenessi io tutti i disegni, lui non ha mai avuto altro che fotocopie, sulle quali tracciava i suoi schizzi, o fogli da schizzi con soluzioni abbozzate. È un caso particolare perché generalmente i prodotti di un lavoro professionale restano nello studio del titolare; non me lo spiego bene neanche oggi, probabilmente Scarpa riteneva che fosse più facile tenere tutto a Venezia. Inizialmente io facevo anche da trait d’union con l’Ufficio tecnico che si era andato via via costituendo e che al principio firmava per lui e teneva i rapporti con le ditte.

Il progetto non fu mai completato e questo ha rappresentato per me un grande dolore. In seguito alla scomparsa di Scarpa, dopo pochi mesi, presi appuntamento con il presidente della Fondazione, l’allora rettore della Facoltà di Architettura, professor Aymonino. Offrii la mia disponibilità a completare il progetto ma il professore iniziò a scarabocchiare sui disegni con una matita blu ripetendo «questo non si fa». Io rimasi un po’ perplessa, non ho mai pensato che si potesse modificare un progetto semplicemente cancellandone delle parti, che poi erano abbastanza importanti. Adesso, ad esempio, al primo piano si vede un vuoto perché le docce del secondo piano non continuano su tutti i livelli come avrebbe volto Scarpa che, forse rifacendosi alle canne di riso di cui aveva parlato Wright per il suo progetto, le aveva pensate come grandi colonne passanti attraverso l’edificio. Questa idea oggi non si legge più, quindi il progetto è stato storpiato. Per non parlare delle pessime condizioni in cui è tenuto oggi. Quando ero ancora alla Facoltà di Architettura dissi, e scrissi, al presidente della Fondazione che dopo certe figuracce con professori tedeschi e spagnoli (mi sono proprio vergognata) non ci avrei più accompagnato nessuno. A questo punto non so in che stato sia la Fondazione Masieri, come sia usata, credo che sia uno sfascio.

 

L.S. In che fase ha collaborato alla stesura dei progetti per i teatri di Genova e di Vicenza? Di che cosa si è occupata concretamente? Sebbene le problematiche (funzionali, architettoniche, contestuali) fossero quasi completamente diverse per i due teatri, mi sembra che questi progetti abbiano rappresentato sfide inedite per l’architetto: la scala, il programma funzionale, il tema. Cosa ricorda di quell’esperienza?

F.S. Il progetto del Teatro Carlo Felice di Genova era già in fase avanzata, prima di me vi aveva collaborato Sergio Los; da quando la stesura del progetto fu trasferita a Venezia non ricordo più la sua presenza tra i collaboratori. Ci occupavamo dei lucidi, come accade a un giovane in qualsiasi studio professionale, e della verifica delle parti progettate dall’ingegner Zavelani Rossi, il quale aveva un’idea molto diversa della rappresentazione di un progetto. Ricordo che i dissidi tra Zavelani Rossi e Scarpa riguardavano soprattutto le zone di confine tra palcoscenico e sala. C’erano poi delle scale che andavano risolte dal punto di vista strutturale oltre che architettonico; ma Scarpa non poteva certamente limitarsi a guardare una cosa fatta da altri, per cui ricordo che il mio primo lavoro sul progetto fu la verifica delle scale di sicurezza del palcoscenico: contavo i gradini. La scala, così com’era disegnata, non avrebbe mai potuto essere realizzata; quando lo segnalai Scarpa fece un salto, credo che poi la rivide personalmente. Un altro aspetto da verificare, molto più interessante, riguardava la curva di visibilità della sala, che per Scarpa era importantissima e non si doveva assolutamente trascurare. Fu uno studio che impegnò anche noi tre collaboratori (i miei due colleghi, come me, sono diventati professori universitari).

 

L.S. E il teatro di Vicenza?

F.S. Anche in quel caso Scarpa, all’ultimo momento, cercava collaboratori e mi telefonò: «verresti qui, ci sarebbe un concorso…». Così dedicai i tre o quattro giorni prima della consegna a quel lavoro; occasionalmente anche Tobia dava una mano al padre, i rapporti erano molto facili in quel momento. Lavorammo quei pochi giorni, intensamente: io mi occupai dei molti lucidi che dovevano essere fatti sulla carta da schizzi per poi essere fotografati per il concorso; la cosa più complicata era che su quel tipo di carta è impossibile cancellare. Credo che mi avesse chiamato anche perché ricordavo bene il meccanismo del palcoscenico del Teatro di Genova, che serviva per controllare anche qualcosa di quello di Vicenza. La scala di rappresentazione però era molto diversa: per il progetto del teatro di Vicenza si lavorava in scala 1:250, con meno cura che per il Teatro Carlo Felice. Di più non ricordo, se non di aver trascorso delle serate anche divertenti in cui si disegnava, si parlava, si stava in silenzio, magari con un bicchiere di whisky, che io bevevo per la prima volta in vita mia!

 

L.S. I giudizi di Scarpa su Wright che emergono dalla lettura delle lezioni accademiche sono di estremo interesse. Mi riferisco in particolare all’evoluzione del suo rapporto con il maestro americano in seguito al viaggio negli Stati Uniti. Ha mai espresso giudizi su altri architetti americani (Sullivan, Mies, Kahn, Loos…) o su architetture viste in America?

F.S. In generale Scarpa non dava molti giudizi sugli altri architetti. Ricordo – e l’ho anche scritto – i giudizi su Wright e, in particolare, sulla propria rivisitazione mentale del lavoro di Wright in seguito alle visite in loco. I suoi giudizi erano un po’ sprezzanti perché apprezzava le forme e gli spazi di Wright, alcuni suoi particolari, ma rimase assai sorpreso nel vedere che in qualche caso le strutture di Wright non avevano alcuna relazione con la forma espressa. Su altri architetti non ricordo granché: parlava di Loos, con cui si può capire che qualche affinità ci fosse; certamente di Louis Kahn, ma con lui Scarpa ebbe piuttosto un’amicizia, si scambiavano materiali come la carta da schizzi. Scarpa usava la carta da schizzi bianca mentre Kahn usava quella gialla; ci sono degli schizzi di Scarpa su questa carta gialla, ma tendeva a usarla poco, con parsimonia, sennò la finiva!

 

L.S. Si ricorda qualche momento di “autocritica” di Scarpa? Ha mai manifestato pensieri, osservazioni, critiche ai propri lavori? Mi riferisco in particolare ai lavori degli anni Cinquanta: che cosa pensava, ad esempio, di casa Veritti a distanza di 15-20 anni dalla sua realizzazione?

F.S. Dei suoi progetti Scarpa parlava piuttosto spesso ma malvolentieri, spronato probabilmente dai suoi assistenti, come emerge dal mio libro. In linea di massima, le sue autocritiche erano abbastanza frequenti: una che mi aveva interessato particolarmente riguarda un particolare della Tomba Brion. Scarpa parlò del «signor sigillo» di una vasca coperta, la cui collocazione era frutto di un’incomprensione telefonica con il capocantiere. A Scarpa la messa in opera di quel dettaglio sembrava molto semplice e probabilmente gli era difficile andare in cantiere solo per quello. Deve aver detto di metterlo ortogonalmente a una certa linea ma fu frainteso e sta di fatto che tuttora questo «signor sigillo» sulla cisterna di fianco al tempietto naviga senza relazione con l’intorno. In genere Scarpa correggeva gli errori, se possibile, ma non faceva distruggere mai il lavoro fatto, del quale aveva rispetto. Il «signor sigillo» resta lì, a memoria di una disattenzione.

 

L.S. Qual è il suo giudizio sui recenti studi su Carlo Scarpa?

F.S. Ne ho accennato parlando della fortuna critica di Carlo Scarpa. Devo dire che, in generale, dopo la sua morte si è pubblicato molto, ma forse più per il gusto di chi scrive che non per raccontare la realtà dei fatti. Un bel libro uscito di recente è quello di Pierconti su Scarpa e il suo rapporto con il Giappone: è molto interessante, soprattutto la prima parte sugli studi di Scarpa, sulla sua formazione, un tema che ritengo fondamentale e che in generale è poco trattato dagli studiosi. La seconda parte affronta il rapporto di Scarpa con il Giappone, un tema un po’ abusato e a mio avviso esagerato. È vero che Scarpa conosceva bene questo Paese, che vi si riferiva per questioni di forma, ma bisogna sempre ricordare che era un architetto occidentale, europeo, con un certo tipo di formazione letteraria e pittorica che incise molto sul suo lavoro e sul suo pensiero. Molto spesso il collegamento al Giappone, per conto mio, riguarda questioni puramente formali. Scarpa è stato più volte criticato per il suo presunto formalismo ma è un controsenso accusare Scarpa di questo e poi riferirlo al Giappone senza approfondimenti.

 

L.S. Quali sono secondo lei le strade che gli studiosi dovrebbero percorrere per comprendere più a fondo l’architettura e la figura di Scarpa? Ci sono, secondo lei, progetti che finora sono stati in qualche modo sottovalutati?

F.S. Credo che nello studio delle opere e della figura di Scarpa andrebbero approfonditi soprattutto la sua formazione e la sua cultura pittorica e letteraria, che incisero moltissimo sul suo lavoro. La sua conoscenza dell’arte del passato è una sorta di substrato intellettuale che emerge in varie occasioni. Ad esempio, nella collocazione delle Tre Grazie a Possagno il riferimento a Lotto è forte, è dichiarato, ma non ancora portato all’attenzione degli studiosi; è interessante anche il suo riferimento alla luce e al paesaggio del Veneto che tentò di ricreare nel piccolo fondale delle Grazie. Fra le opere che dovrebbero essere approfondite dal punto di vista delle associazioni letterarie e ancor più pittoriche c’è la Banca Popolare di Verona. Anche delle sue suggestioni letterarie si potrebbero trovare molti esempi: la letteratura è stata molto importante per Scarpa, la citava continuamente. Non credo sia una ricerca facile.