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Videointervista

Giuseppe Tommasi
collaboratore

luogo: Verona, Museo di Castelvecchio
data: 13 ottobre 2009
intervista di: Alba Di Lieto
durata: 00:32:11

principali opere citate: casa Ottolenghi
biografie: Giuseppe Tommasi, Alba Di Lieto

Alba Di Lieto [A.D.L.] A quando risale il suo primo contatto con Carlo Scarpa?

Giuseppe Tommasi [G.T.] Il mio primo contatto con Carlo Scarpa risale alla primavera del 1970, un giorno che accompagnai Guido Pietropoli ad Asolo a vedere il cantiere della Tomba Brion: lì lo conobbi ufficialmente, e poi pranzammo insieme. Ma i miei primi contatti con Scarpa risalgono a qualche anno prima, probabilmente al 1968 o 1969: pur studiando a Milano mi capitò di andare alla facoltà di architettura di Venezia e, in modo assolutamente fortuito, di assistere a una lezione di questo personaggio che in quel momento stava facendo un’invettiva violenta contro il calcestruzzo armato. Sosteneva che non era un vero materiale, che prendeva pedissequamente la forma che la cassaforma gli imponeva. Alcuni mesi dopo mi capitò di ritornare nello stesso posto, nella stessa aula, e di rivederlo mentre faceva un panegirico del calcestruzzo armato, con esempi del lavoro che lui stesso stava realizzando a Brion. Questa doppia e casuale esperienza mi convinse, senza sapere ancora chi fosse, che il personaggio che avevo di fronte sarebbe stato importante per l’apprendimento dell’architettura.

L’ultima volta che vidi Carlo Scarpa fu il giorno prima della sua partenza per il Giappone, dal quale poi non tornò. Poiché all’epoca mi stavo occupando della casa Ottolenghi, ero andato da lui per chiarire alcuni dettagli e avere indicazioni per proseguire la direzione del cantiere mentre lui era in viaggio.

 

A.D.L. In che modo vi siete frequentati in questo intervallo di tempo, dalla sua tesi di laurea alla partenza di Scarpa per il Giappone?

G.T. In questo intervallo di tempo ci siamo sempre frequentati. Quando gli chiesi se potevo laurearmi con lui nonostante studiassi a Milano, mi disse: «io a Milano non vengo»; allora risposi: «beh, vengo io a Venezia». All’inizio andavo da lui per preparare la tesi, poi, non appena laureato, gli chiesi se potevo lavorare con lui, aiutarlo, e lui mi disse di sì.

In seguito ho avuto la fortuna di fare il servizio militare di prima nomina a Padova: tutti i pomeriggi, finito il servizio, andavo a Vicenza. In quel periodo avevo con Scarpa una frequentazione quotidiana.

 

A.D.L. Prima di conoscere Scarpa aveva dei pregiudizi?

G.T. Prima di conoscere Scarpa non avevo alcun pregiudizio, però quando sono venuto in contatto con la sua architettura sono rimasto un po’ perplesso perché venivo dalla scuola di Milano. Avevo fatto il biennio di ingegneria, che peraltro mi era piaciuto, poi mi sono trasferito ad architettura; all’epoca a Milano si frequentavano i corsi di Aldo Rossi, con il quale ho fatto un esame, Giorgio Grassi, l’autore de La costruzione logica dell’architettura, e quindi l’architettura di Scarpa di primo acchito mi sembrava un po’ decorativa: un pregiudizio, questo, allora molto diffuso. In seguito mi sono del tutto ricreduto e ho capito che è più «costruzione logica dell’architettura» quella di Carlo Scarpa, controllata da equazioni complesse, che non quella di Giorgio Grassi, che peraltro stimo molto e di cui seguo gli insegnamenti.

 

A.D.L. Potrebbe provare a tracciare un quadro della fortuna critica di Carlo Scarpa in Italia?

G.T. Sulla fortuna critica di Carlo Scarpa in Italia c’è una vasta letteratura, posso solo dire qualche mia impressione. Vorrei esprimere il mio rammarico per il fatto che molti dei progetti elaborati da Carlo Scarpa nella fase finale della sua vita, progetti importanti, furono bocciati, se ne impedì la realizzazione e restarono purtroppo sulla carta. Per esempio, il Museo di Santa Caterina a Treviso, la foresteria della Fondazione Querini Stampalia a Venezia, la piazza di Feltre, casa Chiesa, cioè l’ampliamento della casa del sindaco di Vicenza, e soprattutto il bel progetto, molto vasto e organico, della facoltà di lettere dell’Università di Venezia a San Sebastiano.

Ebbe molte difficoltà nella sua attività professionale, non tanto per il fatto di non essere laureato, che fa parte dell’aneddotica, ma proprio perché molti progetti furono bloccati, intralciati da una burocrazia poco intelligente. Ripensando a quei tempi però direi che adesso siamo ridotti molto peggio, nel senso che oggi, per mille motivi, purtroppo non credo si potrebbe fare un lavoro come Castelvecchio.

 

A.D.L. Accanto al maestro, che ruolo professionale ha rivestito? E cosa significava lavorare insieme a lui?

G.T. In un caso specifico come quello di casa Ottolenghi cofirmai il progetto, perché come sappiamo Carlo Scarpa non avrebbe potuto, e fui anche direttore dei lavori, quindi seguii il cantiere in modo continuativo e completo. Per il resto, lo aiutai occasionalmente a fare altri lavori, di cui però non ero responsabile. Ricordo che disegnai l’ultima versione del portale dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, il progetto della foresteria della Querini Stampalia, e l’aiutai a fare i disegni della facoltà di lettere a San Sebastiano.

La prima volta che andai da lui dopo la laurea, si stava occupando del progetto del ristorante Fini a Modena con Federico Motterle, quindi cominciai a fare esperienza aiutandolo in quel progetto, un progetto molto interessante che poi non si realizzò (in quel caso perché Fini cambiò idea, non per altri motivi).

 

A.D.L. Che impressione ha di Carlo Scarpa come persona?

G.T. Su Scarpa come persona c’è una vastissima aneddotica, la mia sintesi è che stando a casa sua sembrava di vivere dentro una commedia di Goldoni. Era una persona piacevolissima, generosa (mangiavo sempre da lui, spesso ho dormito lì), una persona di grande umanità e di grande simpatia, come tutti sanno.

 

A.D.L. Ha avuto occasione di accompagnarlo in qualche viaggio, per esempio a Parigi?

G.T. Sì, lo raggiunsi a Parigi quando fece la mostra; poi lo accompagnavo spesso nei cantieri, nella zona di Verona per la Banca Popolare e la casa di Bardolino, oppure a Venezia. Insomma, in tanti anni l’ho accompagnato spesso dove doveva andare perché lui naturalmente non guidava l’automobile; ricordo che andammo a un concerto a villa Badoer.

 

A.D.L. Ricorda qualche architettura o qualche museo in particolare che ha visitato insieme a Carlo Scarpa?

G.T. A Parigi andammo a vedere certi edifici Liberty di Guimard che sarebbero stati demoliti di lì a poche settimane. Fra i musei, andai con lui a Possagno, naturalmente qui a Castelvecchio, alle Gallerie dell’Accademia e al Museo Correr a Venezia.

 

A.D.L. Può raccontarci di personalità che conoscevano Scarpa e lo promuovevano?

G.T. Le personalità che promuovevano Carlo Scarpa sono a tutti note. Ricordo benissimo il rapporto amichevole che aveva con Licisco Magagnato e naturalmente con Giuseppe Mazzariol, persone che tra l’altro gli hanno permesso di fare lavori importanti, come il restauro di Castelvecchio (Magagnato), la Fondazione Querini Stampalia e il progetto della Facoltà di lettere (Mazzariol). Lo stesso Dino Gavina, che pur aveva interesse a ottenere i disegni dei mobili, aveva con lui un rapporto amichevole. Gli regalò un’automobile, una mini, e anche un cane mi sembra.

 

A.D.L. Che legame c’era tra Carlo e Alberto Ottolenghi e Mazzariol?

G.T. L’avvocato Ottolenghi di Venezia era amico di Mazzariol e fu su suo consiglio che diede a Scarpa l’incarico di progettare la casa del figlio a Bardolino.

 

A.D.L. Ha conservato dei materiali di lavoro, disegni o fotografie?

G.T. La maggior parte dei materiali che avevo riguarda la villa Ottolenghi e oggi è al Museo di Castelvecchio; ho ancora qualche disegno che tengo per ragioni sentimentali, per ricordo. Sono molto belli.

 

A.D.L. Quali sono i valori che Scarpa le ha trasmesso?

G.T. Vedo Carlo Scarpa come una specie di contrabbandiere, un transfuga che trafuga i valori dell’architettura classica. Com’è noto diceva di sé: «sono uomo di Bisanzio, venuto a Venezia passando per la Grecia». Mi fa venire in mente il cardinale Bessarione che eludendo sorveglianze di vario tipo riesce a portare i valori dell’architettura classica in un mondo che non li richiede e difficilmente li accetta. E questo spiega perché in fondo non ci sia e non sia possibile una scuola scarpiana, perché questi sistemi acrobatici che lui aveva di ricostruire e riproporre evocazioni della grande architettura non sono facilmente imitabili. Qualcuno diceva «i grandi copiano, i mediocri imitano», ma è molto difficile copiare quel suo modo specialissimo di fare. Come tutti i grandi architetti del passato aveva una grande idea dell’architettura. Platone dice dell’architettura: «la più rigorosa della maggior parte delle scienze, degli epistemi». Nell’architettura di Scarpa si trovano questi valori di ricerca della verità, nel senso antico. Ma è una specie di hàpax lègomenon, mi sembra un giocoliere, un equilibrista che riesce in questo difficile e improbabile intento.

 

A.D.L. Che tipo di cultura aveva Scarpa?

G.T. Scarpa aveva una cultura molto vasta; leggeva molto, frequentava la poesia e nei propri gusti era onnivoro. Forse rimpiangeva – questo me lo disse – di non avere avuto una formazione classica; mi pare che avesse un fratello che insegnava latino o greco e mi disse che aveva cercato di farsi spiegare da lui la cultura classica.

Era una persona estremamente colta, che però non esibiva mai la vastità della sua cultura. Bisogna finirla di rappresentare Scarpa come un artigiano che improvvisamente, con la sola estensione dei muscoli pettorali, diventa un grande architetto. Aveva studiato architettura seguendo il normale cursus di un architetto del tempo. Da quel punto di vista lì non è affatto anomalo: ha studiato architettura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, si è sempre occupato di architettura, ha approfondito questa disciplina da persona di vasta cultura. Non era affatto autodidatta, nell’accezione normale del termine, come si è sempre sentito dire. Lo fu come tutti noi, nel senso che per tutta la vita uno continua a leggere quello che gli interessa, ma aveva una solida formazione.

 

A.D.L Ci racconta del ruolo della committenza nell’incarico di casa Ottolenghi? Sappiamo che questa giovane famiglia doveva trasferirsi da Venezia a Verona. Perché fu scelta la località di Bardolino? Carlo Ottolenghi aveva delle perplessità rispetto a questo luogo un po’ isolato, voleva che i nipoti crescessero in un ambiente colto e che mantenessero dei legami con la sua città d’origine, Venezia. Ci piacerebbe farci raccontare da lei la genesi del progetto di villa Ottolenghi.

G.T. Allora parliamo del progetto e del cantiere di villa Ottolenghi. Il figlio dell’avvocato Ottolenghi, grande amico di Mazzariol, abitava già in un rustico su un appezzamento di terreno a Bardolino che aveva restaurato con consigli di Tobia Scarpa. L’incarico di una casa completamente nuova arrivò a Carlo Scarpa tramite Mazzariol e l’avvocato Ottolenghi.

Sull’appezzamento cresceva un vigneto; la scelta di Scarpa fu quella di costruire la casa in una posizione periferica in modo da salvaguardare questa porzione di terreno agricolo. Dal punto di vista tecnico-burocratico il progetto della casa, pur essendo originale, fu presentato come variante di un progetto redatto da un geometra del luogo e già approvato, semplicemente per avere il permesso di costruire.

Mi sono occupato del progetto fin dall’inizio perché Scarpa, poiché abitavo nella zona, mi considerava adatto a seguire questo cantiere. Si tratta di una casa abbastanza piccola, con soluzioni spesso insolite. Come tutti sanno il progetto è molto complesso, avemmo l’enorme fortuna di trovare un’impresa locale ingegnosa, che diede il meglio di sé e fu all’altezza della non facile situazione.

I rapporti con i committenti sono sempre stati piuttosto buoni, forse un po’ tesi nella fase finale per problemi di tempistica; in realtà, la costruzione della casa non è durata moltissimo, nell’ordine dei 5 anni. Quando Carlo Scarpa morì il cantiere era molto avanti ma non ancora terminato, quindi ho dovuto affrontare tutti i problemi che nascono quando si deve finire un progetto di questa importanza. Per fortuna avevo molti disegni esecutivi che Carlo Scarpa aveva già revisionato, per cui molte cose ho potuto farle con una certa tranquillità. Per altri elementi che dovevano ancora essere definiti ho dovuto ingegnarmi, insieme al mio amico Guido Pietropoli, e inventarli in modo che non fossero né contraddittori con l’esistente né troppo “scarpiani” nel senso canonico del termine.

A un certo punto sembrava che questa casa fosse costata moltissimo, in realtà facendo un banalissimo conto dei costi al metro quadro dimostrai ad Alberto Ottolenghi che era costata quanto allora un appartamento in Borgo Trento a Verona. Per cui va sfatato anche il mito secondo cui le case di Scarpa avessero costi incontrollabili e tempi biblici. Scarpa amava le cose fatte bene, che avevano i loro costi, ma secondo me per questa casa sia il costo sia il tempo sono stati del tutto ragionevoli se si considera la complessità dell’opera.

 

A.D.L. Il ruolo di Marie-Thérèse Ottolenghi nel progetto è abbastanza importante. Come si comportava Scarpa con lei, come accoglieva le richieste della committenza?

G.T. C’è da dire che Scarpa teneva in gran conto qualsiasi tipo di osservazione, anche se fatta dallo studente più giovane e sprovveduto; e tanto più ne teneva conto quando era il committente a cercare di raffigurarsi la propria vita in un oggetto così complesso e indecifrabile come poteva essere la casa Ottolenghi.

La signora Ottolenghi, non saprei… è stata una sorta di «ispiratrice», così almeno dice il marito. Sicuramente è vero ma in forma indiretta, non nel senso che alcune soluzioni, difficili da capire anche per gli addetti ai lavori, fossero discusse o rielaborate insieme a lei. Scarpa cercava come sempre di interpretare l’indole dell’interlocutore.

Uno degli intenti dichiarati dell’avvocato Ottolenghi, di Giuseppe Mazzariol e anche della famiglia che avrebbe abitato nella casa, era quello di far vivere i più giovani in un contesto “urbano”. Avendo scelto di vivere in un paesino come Bardolino, privo di stimoli, l’intenzione era quella di trasportarvi un ambiente urbano e civilizzato. D’altronde tutta la grande architettura nelle campagne – Palladio insegna – è una trasposizione di elementi urbani sul territorio. Non so che effetto abbia avuto poi questo programma, però l’intento era quello.

 

A.D.L Quali sono gli elementi salienti di casa Ottolenghi dal punto di vista architettonico? Credo che la genesi delle colonne, la collocazione del bagno e il colore del soffitto potrebbero essere motivi da raccontare nel dettaglio.

G.T. Parliamo degli elementi fondativi di casa Ottolenghi. Tutto il progetto si è sempre organizzato intorno a 9 pilastri dichiaratamente fuori scala (in un primo momento erano otto, poi sono diventati nove). Hanno un diametro di 88 cm e sono costruiti con corsi di calcestruzzo gettati fuori opera alternati a pietra a spacco. Inizialmente si doveva usare pietra di Prun, una pietra locale del Veronese; poi, secondo me per un ragionamento di carattere squisitamente cromatico, Scarpa decise di inserire anche dei corsi di pietra di Trani, di un colore lievemente rosato, che essendo in qualche modo complementare al grigio verdastro del calcestruzzo produceva un effetto cromatico più raffinato e più interessante.

Questi nove elementi sostengono un solaio di copertura molto articolato e complesso: è costruito con piani variamente inclinati che abbiamo poi trattato con stucco nero. Solo in un primo momento, per finire la casa, demmo una mano di bianco perché non c’era né tempo né denaro per realizzare l’idea di Carlo Scarpa. Pochi anni fa però gli Ottolenghi si sono convinti a completare il progetto e abbiamo realizzato la finitura in stucco nero lucido che riflette il panorama esterno, porta dentro il movimento delle foglie e soprattutto fa in modo che i pilastri si immergano in una specie di “nulla”, non abbiano cioè una fine.

Dal punto di vista statico però il solaio non ha alcun interesse, non sfrutta la sua forma per reggersi, è un banalissimo solaio di laterocemento. Questo perché l’ingegner Maschietto, grande amico di Scarpa, valutò le luci in gioco troppo piccole perché valesse la pena di impostare un calcolo statico molto raffinato.

Mi incuriosiva vedere Scarpa che spostava di pochi centimetri la posizione dei pilastri in pianta, volevo capire quale fosse la regola segreta che lo guidava. Così, per pura curiosità, ho fatto un esperimento e ho constatato che se si calcola il baricentro dei pilastri considerati come elementi puntiformi, questo curiosamente coincide esattamente con il baricentro della pianta della casa.

Questo riscontro numerico mi ha divertito e dimostra una sensibilità raffinatissima da parte di Scarpa: alla fine queste forme che sembrano così complesse trovano un riposo, un equilibrio che non esiterei a definire classico.