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Videointervista

Valter Rossetto
collaboratore

luogo: Verona, Museo di Castelvecchio
data: 13 ottobre 2010
intervista di: Alba Di Lieto
durata: 00:51:53

principali opere citate: Banco Popolare di Verona
biografie: Valter Rossetto, Alba Di Lieto

Alba Di Lieto [A.D.L.] A quando risale il primo contatto con Carlo Scarpa e in che occasione l’hai conosciuto?

Valter Rossetto [V.R.] Il mio primo contatto con Carlo Scarpa risale all’inizio degli anni Settanta, quando ero ancora studente allo IUAV.

 

A.D.L Hai avuto modo di collaborare con Scarpa durante la tua carriera?

V.R. Ho collaborato con Scarpa finita l’università. Avevo iniziato a studiare con il professore e feci la tesi con lui. Quando finii, una serie di circostanze mi portarono a lavorare con il professore qui a Verona. Fui chiamato dall’architetto Rudi, che era suo assistente e stava facendo dei lavori per la Banca Popolare di Verona. Il mio percorso di studente-laureando con Scarpa è durato all’incirca due anni, successivamente ho lavorato per lui quasi tre anni. Quindi, tra l’università e il cantiere di Verona, ho frequentato Scarpa per circa 5 anni.

 

A.D.L Ci puoi raccontare del ruolo di Arrigo Rudi nel progetto per la Banca Popolare?

V.R. L’architetto Arrigo Rudi cominciò il progetto insieme al professor Scarpa, ne condivise fin dall’inizio tutte le fasi aveva la responsabilità del progetto presso le istituzioni. Come tutti sanno, il professor Scarpa non aveva la laurea in architettura, quindi non poteva esercitare ufficialmente il mestiere di architetto. L’architetto Rudi, come altre persone in altre circostanze, coadiuvava il professore; oltre a collaborare materialmente alla stesura del progetto ne portava avanti gli aspetti burocratici. Firmava lui le richieste di autorizzazione per ottenere le licenze edilizia ecc. Ma il suo ruolo non si limitava a questo, era più importante: il professor Rudi aveva una consolidata esperienza di lavoro con Scarpa, che aveva iniziato qualche decennio prima a Castelvecchio; nel corso degli anni questa collaborazione si infittì, diventò uno dei suoi assistenti a Venezia e a sua volta professore.

Nel caso della Banca di Verona gli fu proprio chiesto da Scarpa di collaborare con lui fin dall’inizio. Il progetto iniziò verso la fine del 1973 e Rudi collaborò fin dal primo momento a tutte le sue fasi finché, dopo la morte di Scarpa, portò a termine il lavoro come lo si vede adesso.

 

A.D.L Quale fu il ruolo di Bianca Albertini?

V.R. Il ruolo di Bianca Albertini e di Sandro Bagnoli era di collaborazione diretta con il professore, lavoravano nel suo studio di Vicenza. Rudi invece aveva lo studio qua a Verona.

Le prime fasi non le posso testimoniare direttamente perché sono intervenuto in un momento successivo, nel 1976, quando ho iniziato a collaborare con Rudi al progetto. Mi ero appena laureato con il professor Scarpa, nel marzo del 1976, e incontrai Rudi alla stazione di Verona. Mi chiese com’era andata – sapeva già che avevo studiato col professore e che era andata molto bene – e disse: «Mi ha parlato bene di te, se hai disponibilità di tempo ti vorrei proporre una cosa da fare assieme». Prendemmo subito un appuntamento e nel giro di qualche giorno mi ritrovai nel suo studio perché voleva vedere cosa avevo fatto e capire come lavoravo. Per una serie di circostanze, non avevo mai incrociato il professor Rudi come docente, non avevo seguito i suoi corsi che talvolta erano biennali. Lo conoscevo perché ero un assiduo frequentatore di mostre, come pure Rudi, e lì ci si trovava, si condividevano delle idee, si parlava del più e del meno. C’era una reciproca stima, nata in occasione di una mostra collettiva alla Galleria Linea 70 di Verona che Rudi condivideva con pittori e galleristi veronesi. Durante l’allestimento di questa mostra credo che Rudi fosse rimasto colpito dal fatto che avevo una certa manualità. Alla stazione mi ha rinnovato, diciamo così, un invito precedente.

Ci siamo trovati nel suo studio un sabato mattina, io pensavo di non trovare nessuno, mi ero detto: «Di sabato mattina chi vuoi che ci sia!»; invece era un formicolio di gente, tutti i tavoli occupati, il telefono che suonava in continuazione… Mi fece accomodare nel soggiorno di casa, che era comunicante con lo studio, e mi chiese di attendere un po’ mentre sbrigava alcune faccende. Poi abbiamo iniziato a guardare la mia tesi, Rudi era parecchio interessato perché era poco “scarpiana”, per lo meno nel tema: un quartiere di case popolari prefabbricate. Era un tema abbastanza inconsueto per Scarpa, di solito questo tipo di lavori veniva sviluppato da altri docenti, da altri filoni culturali. Però a lui piacque molto; esaminò con parecchia attenzione il lavoro che avevo fatto e colse subito anche gli aspetti formalmente più deboli perché aveva l’occhio allenato a valutare i progetti degli studenti. Intuii che a lui interessava capire se avevo assimilato quanto meno qualcosa del percorso che avevo fatto col professor Scarpa, del suo metodo.

 

A.D.L Come mai avevi scelto Carlo Scarpa come docente?

V.R. Avevo scelto Carlo Scarpa perché mi sembrava l’unico che alla teoria facesse seguire la pratica di cantiere. Quando studiavo io, a Venezia l’architettura era puramente teorica o addirittura ideologica, un tipo di approccio che in me provocava solo disorientamento e confusione. Ero stato sul punto di mollare tutto ma quando ho avuto la possibilità di provare un percorso diverso, con Carlo Scarpa, mi si sono aperti degli orizzonti nuovi.

 

A.D.L Avevi dei pregiudizi su Carlo Scarpa?

V.R. Sì, avevo dei pregiudizi abbastanza comuni in quel momento. Di Carlo Scarpa conoscevo Castelvecchio e le opere veneziane, che avevo visitato più volte da studente; conoscevo la Querini Stampalia, il negozio Olivetti, e mi sembravano tutti oggetti straordinari, impeccabili dal punto di vista della resa spaziale e dell’uso del materiale. Però avevo dei pregiudizi: pensavo anch’io che il tipo di architettura di Scarpa fosse d’élite e forse un po’ fuori dalla realtà; non che ne fossi intimamente convinto ma era il tipo di convincimento che avevo assorbito dall’ambiente intorno a me e dal mondo accademico, dai critici e dagli altri architetti. Quindi all’inizio ero un po’ titubante, dopo però l’impressione è stata completamente diversa.

 

A.D.L Riesci a tracciare un quadro della fortuna critica di Carlo Scarpa?

V.R. La mia esperienza è quella di un professionista che lavora in cantiere, parlare della fortuna critica è compito dei critici e degli storici. Comunque, visto che dal momento in cui ho cominciato a lavorare con lui ho sempre cercato di approfondire e studiare quanto c’era di reperibile su Scarpa, posso dire le mie sensazioni. Fino ai primi anni Settanta su Carlo Scarpa non c’era quasi nulla; c’erano pochissime pubblicazioni, riviste talvolta di difficile reperibilità. Se togliamo alcuni articoli su riviste tipo «Zodiac» o «L’architettura. Cronache e storia» diretta da Bruno Zevi, non esistevano studi monografici approfonditi e organici sull’opera di Carlo Scarpa.

Nel 1972 uscì però un numero monografico di «Controspazio» (credo che fosse il primo numero monografico di una rivista) dedicato interamente a Scarpa e curato da Manlio Brusatin che si era laureato con lui proprio in quel periodo. Fu il primo tentativo serio di fare il punto sulla sua attività.

Successivamente fece molto scalpore una mostra dei suoi lavori che Scarpa allestì nel 1975 all’Institut de l’Environnement di Parigi; era organizzata da Luciana Miotto che la illustrò in un piccolo libretto molto bello. La visitò, quasi di sfuggita, André Chastel, che fece prolungare la mostra di una settimana e la recensì su «Le Monde» catturando l’attenzione di molti. Chastel lo portò alla ribalta internazionale; in precedenza, al di fuori di pochi estimatori e di pochi allievi, Scarpa non era molto conosciuto. Ed era anche snobbato, non godeva di quei riconoscimenti che invece sarebbe stato giusto attribuirgli. Dopo di allora uscì anche un altro numero monografico, di «Space Design», una rivista giapponese bellissima, di cui ho ancora una copia con dedica che mi diede Scarpa appena iniziammo a lavorare insieme. E fece conoscere Scarpa ai giapponesi. Nello stesso periodo uscirono altri numeri monografici, delle riviste francesi «L’Architecture d’aujourd’hui», una monografia sull’architettura italiana in cui per la prima volta venivano pubblicati i disegni del cimitero di Brion, e «AMC».

A quel punto Scarpa cominciò a destare l’attenzione di tutti, ormai era come una diga che non si può più contenere. Anche se qua in Italia era stato sempre ostacolato e osteggiato, i nostri critici non potevano non accorgersi di quello che veniva pubblicato all’estero; fu l’inizio di un susseguirsi di pubblicazioni, tanto che adesso credo sia uno degli architetti più pubblicati e più indagati dell’architettura contemporanea della seconda metà del secolo scorso.

Anche mentre seguivo il cantiere a Verona, e alcuni disegni della Banca erano già stati pubblicati, mi accorgevo che la fortuna critica di Scarpa si stava espandendo, perché da quel momento fu un viavai continuo di architetti, studiosi di architettura e docenti di tutte le università del mondo per visitare il cantiere. Era in una fase abbastanza avanzata ma non ancora ultimato, e già stava diventando famoso… Bastarono la pubblicazione di alcuni disegni e le visite di alcuni personaggi famosi a farlo diventare una delle tappe obbligate per chi viene a Verona o in Italia a visitare l’architettura di Scarpa e l’architettura moderna in generale.

 

A.D.L Relativamente alla tua esperienza nello studio Scarpa, seguivi soltanto la Banca Popolare o anche altri lavori?

V.R. Il mio ruolo era quello di coadiuvare Rudi e seguire il cantiere. Quando Rudi mi chiamò mi disse: «Ci sono delle questioni da risolvere, dovresti darmi una mano perché io ho sempre meno tempo, l’università assorbe molte delle mie energie e sono spesso a Venezia; ho bisogno di una persona di fiducia che conosca il modo di lavorare di Scarpa, che conosca i problemi e li segua per me da vicino e in maniera costante». Mi fece vedere tutti i disegni e tra me e me pensai: «Qua è meglio stare in campana perché è già stato progettato tutto e nel giro di qualche mese non c’è più niente da fare». Comunque sin dall’inizio dissi a Rudi, e anche a Scarpa, che mi sarebbe piaciuto seguire il cantiere perché confrontarmi con la realtà dell’esecuzione era altrettanto importante per me che seguire le fasi di progettazione preliminare. Quindi riuscii subito a confrontarmi con gli aspetti pratici, concreti del cantiere. Il ruolo che avevo in quel momento era di collegamento fra il cantiere e i disegni esecutivi che erano già in buona parte sviluppati nello studio di Vicenza (dai collaboratori che abbiamo ricordato: Bianca Albertini e Sandro Bagnoli) e a Verona da Arrigo Rudi.

 

A.D.L. Hai mai fatto viaggi con Scarpa: sopralluoghi, visite a musei o mostre?

V.R. Visite a musei o mostre no. Una volta ho accompagnato il professor Scarpa a vedere il cantiere della villa Ottolenghi: mancava Pino Tommasi quindi mi offrii con molto piacere di portarlo a Bardolino con l’automobile. Fu la prima volta che vidi quel cantiere che, parallelamente al cantiere della Banca Popolare, stava avviandosi a una fase di avanzata costruzione, quasi di finitura.

 

A.D.L C’erano delle personalità che promuovevano Scarpa che tu conoscevi e delle quali ti piacerebbe raccontare?

V.R. Come ho detto, le personalità che promuovevano il lavoro di Scarpa erano abbastanza poche e sono quelle conosciute. Di queste ho potuto conoscere direttamente Licisco Magagnato, che era il direttore del Museo di Castelvecchio e che conoscevo per averlo frequentato e per aver ascoltato alcune sue lezioni, e il professor Mazzariol, un suo grandissimo estimatore che avevo conosciuto a Venezia perché insegnava Storia dell’arte.

 

A.D.L. Che impressione hai di Scarpa come persona?

V.R. Scarpa era sicuramente una persona eccezionale e fuori dagli schemi: era un artista a tutto tondo. È difficilissimo descrivere Scarpa perché si corre il rischio di cadere nell’aneddotica; da questo punto di vista ne ho sentite di tutti i colori perché era un personaggio unico, anche nel modo di porsi o di proporsi alle persone. Però era sempre un piacere stare con lui, era un happening, non si sapeva mai come poteva andare a finire. Era assolutamente stimolante dal punto di vista culturale e intellettuale; aveva il cervello continuamente in movimento e una curiosità infinita, che si traduceva poi in battute, affermazioni, osservazioni che lasciavano sempre interdetti.

 

A.D.L. Sai se ci sono interviste che rendono bene il “personaggio” Carlo Scarpa?

V.R. Un’intervista che dal mio punto di vista lo rende in maniera abbastanza fedele è quella fatta da Barbara Radice e pubblicata su «Modo», era intitolata Un architetto a regola d’arte. Ricordo che di questa intervista, rilasciata pochi mesi prima che morisse, sentii parlare a casa sua: Scarpa mi sembrava contento perché era stata condotta in toni abbastanza spiritosi, era leggera però coglieva in profondità lo spirito e l’essenza del personaggio; mentre la moglie non era molto convinta, diceva: «Sembri ridicolo, non dovevi prestarti a questo tipo di operazione».

 

A.D.L Che tipo di cultura aveva Carlo Scarpa?

V.R. Carlo Scarpa aveva una cultura mostruosa, possedeva tantissimi libri e spaziava su tutto. Però quella principale era la cultura figurativa: conosceva l’arte di tutti i tempi e soprattutto dell’arte sapeva cogliere gli aspetti profondi, “materici”. Probabilmente è anche per questo motivo che riusciva così bene a esporre l’arte, un settore in cui è riconosciuto da tutti come il numero uno.

 

A.D.L. Quali valori in campo architettonico ti ha trasmesso Scarpa?

V.R. Sono gli stessi valori che cercava di trasmettere a tutti: la maniera di confrontarsi con i problemi (cioè capirli a fondo prima di cercare delle risposte) e con gli aspetti propri del mestiere di fare architettura.

 

A.D.L. Oltre alla Banca Popolare hai seguito altri progetti con Carlo Scarpa?

V.R. Non ho seguito niente altro; ma ovviamente ho visto parecchi progetti che il professore seguiva contemporaneamente a quello della Banca e di cui parlava.

 

A.D.L. Hai partecipato a sopralluoghi in cantiere anche insieme a Scarpa?

V.R. Per la Banca, i sopralluoghi in cantiere insieme a Scarpa erano settimanali. Di norma il professore veniva il mercoledì: si fermava tutta la mattina e discuteva con i collaboratori più stretti, quindi con l’architetto Rudi, con me… c’era sempre anche il direttore dei lavori, l’ingegner Renato Scarazzai, che era incaricato dei calcoli delle strutture. Con alcune persone dell’ufficio tecnico della Banca si facevano degli stages, cioè delle riunioni settimanali per affrontare i problemi che mano a mano richiedevano delle soluzioni o delle verifiche. Quindi le visite del professore erano frequenti, almeno una alla settimana, tranne le volte in cui magari era impegnato all’estero o in altre cose. Oppure si andava dagli artigiani: ricordo le visite ai laboratori dei marmisti e degli altri artigiani per la scelta dei materiali o per discutere dettagli di tipo costruttivo. Perché Scarpa, contrariamente a quanto si può pensare, aveva una grande attenzione per i problemi di chi doveva eseguire i suoi lavori. Da un lato aveva un’ottima conoscenza dei materiali, delle tecniche e dei valori espressivi che con queste tecniche e questi materiali si potevano ottenere; li usava con estrema raffinatezza. Dall’altro, si confrontava sempre con l’esecutore che dava significato a ciò che lui aveva disegnato. Questa interazione continua con gli artigiani, con le maestranze, con i collaboratori, era una costante del suo metodo di lavoro. Insieme ad altri, è stato uno degli insegnamenti più importanti, quello che ho recepito maggiormente.

 

A.D.L Quando era in cantiere, Scarpa faceva schizzi, correggeva i disegni o dava solo indicazioni a voce agli artigiani?

V.R. Quando Scarpa veniva in cantiere di solito portava con sé dei disegni, oppure guardavamo insieme dei disegni che erano già sul posto. Spesso era necessario chiarire l’aspetto costruttivo di un disegno di difficile interpretazione; per spiegarsi meglio faceva degli schizzi sulle copie eliografiche o sul retro dei disegni, oppure sovrapponeva dei fogli trasparenti a una parte del disegno per farne vedere gli aspetti minuti e magari nascosti, perché l’architettura – come il corpo umano – ha una pelle sotto la quale c’è tutta una serie di organi che la fanno vivere. Sotto l’intonaco si celano strutture, impianti o comunque parti non visibili che, attraverso il disegno, si possono esplicare. Questo serve soprattutto a chi esegue materialmente le opere in cantiere. Quindi Scarpa schizzava continuamente sulla carta o anche sui muri, perché l’importante era tradurre il disegno in realtà.

La Banca Popolare aveva un impianto molto complesso, basti pensare alla scelta originaria di impostare il reticolo strutturale su una maglia inclinata di 1 grado e 50’, cosa che comportava, per esempio, che anche un semplice pavimento non potesse essere fatto di piastrelle rettangolari o quadrate ma che queste fossero fatte su forme con angoli diversi dai canonici 90 gradi. Spesso bisognava ricorrere a sagome fatte direttamente in cantiere per le parti terminali o mancanti. Potevano nascere problemi imprevisti e, in quel caso, erano necessarie la presenza di Scarpa in cantiere e le sue esplicazioni con disegni e dettagli. Pur progettando con minuziosa attenzione un organismo, può succedere che in cantiere alcune parti risultino non sufficientemente valutate o soppesate. Oppure, in corso d’opera nascevano esigenze di tipo diverso, per esempio esigenze funzionali della committenza diverse da quelle stabilite in precedenza. Quindi la sua presenza era strettamente necessaria.

Era altrettanto necessaria per fissare quei valori che il disegno di progetto non riesce a stabilire: la grana di un intonaco, il colore di un materiale non si possono definire sulla carta o a parole, bisogna fare dei campioni che si potevano verificare esclusivamente lavorando in cantiere. Tutti i campioni, che venivano eseguiti con grande perizia ma anche in grande quantità, dovevano passare al vaglio di Scarpa e avere la sua approvazione.

 

A.D.L. Dopo la scomparsa di Scarpa, come vi siete comportati rispetto a queste scelte così delicate?

V.R. La morte di Scarpa, che è giunta improvvisa, all’inizio ha creato non poche difficoltà, anche se il cantiere era in una fase molto avanzata sia dal punto di vista del dettaglio che della fornitura dei materiali. L’opera era completata in quasi tutte le parti e tutti i materiali lapidei erano già stati scelti e messi in opera.

Nel momento in cui Scarpa è venuto meno la responsabilità della conduzione dei lavori è passata tutta sulle spalle dell’architetto Rudi, che ha avuto il grandissimo merito di avere saputo condurre e portare a termine un’opera che io stesso, sulla scorta del giudizio di persone molto più qualificate di me, mi sento di definire un’opera autografa. Mancavano i serramenti ma erano già stati ordinati, mancavano alcune parti cromatiche ma si conoscevano le scelte che Scarpa aveva espresso verbalmente. Rudi riuscì ad ottenere dalla committenza la possibilità di impiegare ditte artigiane che avevano già lavorato con Scarpa e che conoscevano il suo metodo di lavoro e la sua sensibilità.

L’opera era in uno stato avanzato ma, nonostante ciò, dopo la morte di Scarpa furono necessari ancora più di due anni di lavoro per completare tutte le finiture. Infatti Scarpa morì nel novembre del 1978 e la Banca mi pare sia stata inaugurata nei primi anni Ottanta.

 

A.D.L. Ti ricordi l’ultimo incontro con Carlo Scarpa?

V.R. L’ultimo incontro con Carlo Scarpa me lo ricordo benissimo perché in seguito l’avremmo definito L’ultima cena, fu proprio l’ultimo giorno che trascorse in Italia. Ero a Vicenza con Rudi e avevamo passato il pomeriggio con lui a discutere di alcuni dettagli della Banca; come spesso succedeva, ci chiese di cenare insieme perché era un modo di concludere un pomeriggio di lavoro in maniera conviviale e di continuare a discutere del progetto e fare programmi in maniera un po’ più leggera. Ci chiese di accompagnarlo a cena perché il giorno dopo sarebbe andato in Giappone. Non c’eravamo solo io e Rudi, oltre a noi due c’era la moglie di Scarpa, c’era Scarpa naturalmente, Aldo Businaro, Morseletto con la moglie e altre quattro o cinque persone che non conoscevo. Quella fu l’ultima volta che vidi il professore da vivo.

 

A.D.L. Pensi che esista uno “stile scarpiano”?

V.R. Non credo che esista uno “stile scarpiano”, credo che esista un modo di affrontare i problemi “alla Scarpa”. Vi racconto un aneddoto che Scarpa mi raccontò per spiegarmi la differenza tra lui e alcuni che lo imitavano. Mi disse che proprio qua a Castelvecchio aveva qualche problema nel risolvere dei grandi serramenti: «Avevo delle luci molto grandi, dovevo risolvere dei problemi tecnici. Lì per lì non sapevo come fare, ma mentre ero alla stazione mi cadde l’occhio sui binari e vidi come i binari di acciaio sono inchiodati sulle traversine di quercia; mi son detto “Guarda come hanno risolto bene questo problema: un materiale e l’altro si sposano perfettamente e uno risolve i problemi che l‘altro gli pone. Potrei utilizzare l’accoppiata acciaio e legno per realizzare i serramenti. E così ho cominciato a disegnare queste vetrate”. Dopodiché gli architetti andavano a vedere Castelvecchio e dicevano “Guarda che bello, lo faccio anch’io così”.».

Ecco, questo è un modo sbagliato perché lo “stile scarpiano” nasceva da una ragione profonda, dalla conoscenza di materiali e di problemi a cui dava una risposta formale; gli altri invece prendevano il risultato e lo copiavano pari pari, senza che avesse più alcun significato. Lo “stile scarpiano” viene identificato con l’uso, adottato da tanti, delle viti a brugola, le viti a coppia, lo stucco. Ma è stupido, perché mentre Scarpa utilizzava questi elementi per delle ragioni precise, per esigenze di tipo tecnico, gli altri prendevano un risultato già acquisito imitandolo pedissequamente.

 

A.D.L Hai conservato disegni o altri materiali di Scarpa?

V.R. Ho qualche fotografia che mi ritrae insieme a Scarpa durante i lavori e ho qualche piccolissimo schizzo, non ho disegni. Quando Scarpa morì tutti i disegni originali che utilizzavamo vennero restituiti al figlio Tobia. Facemmo un primo inventario di questi disegni e poi li consegnammo per essere conservati presso l’Archivio, che in un primo momento era andato al figlio. Tra i materiali che conservo, come ricordo di quella esperienza, ho questa foto che ritrae il gruppo di lavoro durante una delle riunioni settimanali: si vedono il professor Scarpa, al centro, l’architetto Rudi e l’ingegner Scarazzai; in piedi ci sono io molto giovane.