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Videointervista

Franco Vattolo
collaboratore

luogo: Trieste, Museo Revoltella
data: 09 novembre 2004
intervista di: Maddalena Scimemi
durata: 00:51:33

principali opere citate: Museo Revoltella
biografie: Franco Vattolo, Maddalena Scimemi

Maddalena Scimemi [M.S.] Siamo con l’architetto Franco Vattolo che può raccontarci del suo primo contatto con Carlo Scarpa, avvenuto – mi pare – in età giovanissima.

Franco Vattolo [F.V.] Sì, ero ancora al liceo. Credo che i primi lavori edili Carlo Scarpa li abbia fatti nella zona di Udine in collaborazione con Angelo Masieri che, da poco laureato a Venezia, era diventato il suo allievo preferito e gli aveva dato l’opportunità di fare queste prime opere: la Banca Cattolica di Tarvisio, la ristrutturazione della sede della SFE (Società Friulana di Elettricità) a Udine, poi anche la tomba dell’avvocato Veritti. A Udine avrebbe fatto anche altri lavori ma successivi. Dopo la morte di Masieri portò avanti alcuni suoi incarichi, fece la villa Giacomuzzi a Udine.

A Udine i Masieri avevano un palazzetto veneto con barchessa e nella barchessa Angelo Masieri aveva ricavato la sua abitazione e lo studio, chiaramente messi a posto con il notevole contributo di Carlo Scarpa. Ho conosciuto il professore in quell’occasione perché mio padre aveva una ditta di decorazioni e arredamento che collaborava già con l'impresa edile Masieri, e successivamente avrebbe collaborato con il figlio Angelo e con il professore.

Io ero iscritto ad architettura a Venezia; finiti gli esami artistici che mi piaceva fare, e lasciati indietro tutti gli esami scientifici, avevo quasi deciso di abbandonare la facoltà e andai in studio da Carlo Scarpa in rio Marin. Arrivavano i primi lavoretti, il rilievo del negozio Olivetti e, negli anni successivi, il concorso di Livorno che Scarpa stava facendo con l’architetto Detti di Firenze.

 

M.S. Può dire qualcosa dell’architetto Detti?

F.V. Ricordo solo di aver accompagnato Scarpa a Firenze quando sistemava l’albergo Minerva in piazza Santa Maria Novella e ne realizzava gli arredi; poi ricordo Detti venire a Venezia per il concorso di Livorno.

 

M.S. Scarpa andava a Firenze a vedere il lavoro finito o a seguire il cantiere?

F.V. Come tutti quelli che sceglievano di collaborare con Scarpa, anche Detti aveva bisogno dei suoi suggerimenti, del suo imprimatur. Scarpa seguiva un po’ la realizzazione, molte volte portando i suoi collaboratori per certi particolari che non avrebbe trovato in loco a Firenze.

 

M.S. Quando dice “collaboratori” intende artigiani e ditte costruttrici.

F.V. Se c’erano problemi di arredo li studiava eventualmente a Venezia. Scarpa abbondava talmente di particolari nei suoi disegni di dettaglio; ma i collaboratori conoscevano bene il suo modo di lavorare perciò a loro bastava un appunto, uno schizzo. Un po’ come facevano gli antichi, disegnavano un frammento di cornice o di fregio e poi lo ripetevano all’infinito, non come adesso che dobbiamo disegnare tutto.

 

M.S. Parliamo del 1956 circa e lei era in studio con Gilda D’Agaro?

F.V. Sì, con lei abbiamo fatto il rilievo del negozio Olivetti.

 

M.S. Eravate voi due in studio?

F.V. Praticamente sì. D’Agaro si era appena laureata e si sarebbe fermata a Venezia per un po’, io avevo quasi lasciato l’università e sarei rimasto a Venezia qualche mese; successivamente ho deciso di finire la scuola.

 

M.S. Nel frattempo mi pare che lei avesse avuto una parte nella casa Veritti.

F.V. Nella casa Veritti a Udine, sì.

 

M.S. La casa fu conclusa prima del 1960.

F.V. Sì, l’incarico della casa era derivato dal primo contatto che Scarpa aveva avuto con l’avvocato Veritti per la tomba al cimitero monumentale di Udine. I lavori erano stati progettati da Carlo Scarpa ma il progetto fu presentato in Comune dall’ingegnere Morelli De Rossi che aveva anche la direzione lavori. Masieri era già morto, in un incidente d'auto in America mentre andava da Wright.

 

M.S. Questo ingegnere era un contatto dell’avvocato Veritti o lavorava con Masieri?

F.V. Lavorava dall’avvocato Veritti e qualche volta anche da me. Quando poi ho deciso di fermarmi a Venezia per finire finalmente gli esami, è subentrato l’architetto Marconi.

 

M.S. Architetto udinese?

F.V. Marconi faceva da tramite tra il professore e l’ingegnere Morelli De Rossi, che era il responsabile del cantiere e il progettista delle strutture.

Finiti gli esami mi sono laureato grazie al professore: con la volontà di finire presto la scuola, avevo approfittato di un progetto di concorso per il teatro di Udine di Valle, il quale mi aveva detto «vieni in studio, mi dai una mano, poi i lavori che presentiamo puoi usarli per la tesi di laurea». Il progetto di questa sala da teatro non era molto rispettoso dell’ambiente perché irrompeva in un organismo ottocentesco nato come ospedale. Alla discussione della tesi il professor Albini, inorridito di fronte a un intervento così brutale, voleva quasi non farmi laureare, sennonché Scarpa mi aiutò, presi il minimo ma in ogni modo finii.

 

M.S. Era il 1961?

F.V. Sì, febbraio del 1961. Pochissimo tempo dopo il dottor Montenero, di cui ero amico, mi chiese se potevo fare da intermediario per l’eventuale incarico a Carlo Scarpa della ristrutturazione del museo Revoltella. Il professore era d'accordo, difatti l’incarico fu dato al professor Carlo Scarpa con la collaborazione dell’architetto Franco Vattolo, e il progetto originario fu firmato da tutti e due. Questo anche per evitare i soliti problemi che sorgevano quando Scarpa doveva firmare progetti per i quali non era abilitato, vedi tutte le cause che l’architetto Della Toffola, presidente dell’Ordine degli architetti di Venezia, gli aveva fatto. Il progetto è andato avanti velocemente: le prime tavole, che sono effettivamente la base del progetto, sono rimaste praticamente le stesse per tutto l’arco dei 20-30 anni di lavoro, e pensare che erano state presentate in pochi mesi...

 

M.S. Nel 1963?

F.V. Prima del 1963, perché c’era stata un'approvazione preliminare. Mi pare che queste tavole furono consegnate prima dell’incarico vero e proprio. Si trattava di 12 tavole del solito formato 1 metro x 35 centimetri, disegnate a mano su cartoncino; praticamente riproducibili solo in bianco e nero.

 

M.S. Erano colorate?

F.V. Sì, erano colorate. La traccia delle murature esistenti era in china marrone molto diluita in modo che rimanesse, e a quella si sovrapponevano i disegni di progetto. Su questa base ci fu dato l’incarico vero e proprio per il quale predisponemmo tavole in scala 1:50 corredate dal progetto statico dall’ingegner Maschietto. Si arrivò così alla realizzazione di tutta la struttura al grezzo.

 

M.S. Con l’ingegner Carlo Maschietto lei aveva avuto modo di lavorare anche prima?

F.V. No, l'avevo solo conosciuto, a Venezia, perché il professore gli chiedeva sempre consiglio, in quel caso non ricordo per cosa.

 

M.S. Per la casa Veritti non aveva dato nessun tipo di consulenza?

F.V. No, lì l’ingegner Maschietto non era intervenuto perché l’incarico era stato dato all'ingegner Morelli De Rossi amico del committente.

 

M.S. Quindi per la prima volta adesso vi trovate a lavorare insieme Scarpa, lei e l’ingegnere.

F.V. In questa prima fase non avevo voluto assumermi la responsabilità della direzione lavori che si prese l’ingegner Maschietto; purtroppo ci furono degli incidenti, morì anche un operaio.

 

M.S. Si ricorda quando?

F.V. Non ricordo precisamente quando, all’inizio delle demolizioni; l’ingegner Maschietto ebbe anche dei problemi giudiziari per questo.

Per Carlo Scarpa era un lavoro anomalo perché era finanziato dallo Stato con il fondo Trento-Trieste per le opere edili, quindi doveva seguire le norme ordinarie per i lavori pubblici con gara d’appalto, supervisione del Genio civile, dell’Ufficio tecnico dell’Amministrazione comunale, della Soprintendenza. Ciò comportava una serie di procedimenti burocratici che Carlo Scarpa non era abituato a seguire. Persino Castelvecchio era stato realizzato con una procedura inconsueta, credo che il direttore Magagnato mettesse a disposizione di Scarpa una certa cifra senza dover rendere conto a nessuno, i lavori andavano avanti fino ad esaurimento della disponibilità economica. Invece a Trieste tutto doveva essere giustificato, c’era una commissione di collaudo in corso d’opera, ecc. Le difficoltà di questa rigida burocrazia erano aggravate dal fatto che né Scarpa né io eravamo del posto perciò c’era una certa lotta tra l’Ufficio tecnico dell’Amministrazione comunale e questi due architetti che venivano da fuori. Un po’ quello che era successo per il vecchio palazzo Revoltella il cui incarico era stato dato all’architetto Hitzig di Berlino, allievo di Schinkel, che poi non poté compiere l’opera se non attraverso un architetto locale.

 

M.S. Quando assunse la direzione dei lavori?

F.V. Fu dopo, completato il primo lotto che comportava le demolizioni, la realizzazione di tutti gli scavi di fondazione, le palificazioni ecc. e la costruzione della prima struttura al grezzo. Ho sostituito Maschietto quando lui non era più interessato a questo lavoro, per il secondo o terzo lotto.

 

M.S. Quindi circa nel 1971.

F.V. Non ricordo gli anni, dovrei verificarli sui disegni. Praticamente però il lavoro era già impostato così com’è adesso, c’erano già i disegni dettagliati delle strutture che su suggerimento dell’ingegner Maschietto erano stati realizzati dallo studio dell’ingegner Assanti di Trieste.

 

M.S. Se non sbaglio si tratta di tre palazzi, ora ci troviamo in quello centrale.

F.V. L’incarico era per la realizzazione di questo museo, già esistente nel vecchio palazzo del barone Revoltella e in una sopraelevazione. L’isolato è formato da tre palazzi: il primo è quello ottocentesco dell’architetto Hitzig; poi c'era una civile abitazione in seguito trasformata in Ufficio anagrafe del Comune ma allora abbandonata; infine, a nord, un palazzetto d'uso civile.

Il museo esistente in palazzo Revoltella aveva già alcune sale adibite a mostre di pittura fine Ottocento-primo Novecento e aveva occupato anche due piani di palazzo Brunner, l'edificio intermedio ex anagrafe. Intorno al 1935 di questo palazzo Brunner era già stata fatta una sopraelevazione che manteneva la stessa superficie del quinto piano. Nelle fotografie storiche si vede il vecchio palazzo con la sua cornice, con il tetto che si fermava al quinto piano, e poi si vede questa netta sopraelevazione. Il professor Scarpa volle integrare la sopraelevazione degli anni Trenta togliendo la cornice, come se il fabbricato avesse un’alta fronte. Ma fra le richieste dell’Amministrazione c’era quella di una maggior superficie, perciò si dovette pensare a un’ulteriore sopraelevazione, il sesto piano dove siamo adesso, che è stato arretrato rispetto alle due vie laterali perché dal basso non si vedesse. Ciò comportò delle modifiche verso palazzo Basevi, anche lì la Soprintendenza richiese un arretramento.

I lavori sono andati avanti fino alla struttura al grezzo, poi si sono fermati per varie ragioni tra le quali il fatto che l’impresa non era adatta a questo cantiere: normalmente faceva condomini nella zona di Lignano, quando aveva vinto la gara d’appalto aveva intenzione di demolire palazzo Brunner e ricostruire tutto nuovo, evidentemente non aveva neanche guardato i disegni di progetto. Già allora avevo espresso delle riserve che non furono accettate, ma in ultimo ci fu una rescissione del contratto con l’impresa. A un certo momento i lavori non andarono più avanti perché nella parte dove era prevista la centrale termica – un impianto notevole – esisteva una cabina di trasformazione dell’energia elettrica che serviva tutto il quartiere e non era facile da spostare. I lavori sono stati fermi per diversi anni; dopo la rescissione del contratto con l’impresa sono state fatte delle opere provvisionali, ad esempio sono state murate le finestre; però non c’era impermeabilizzazione, l’acqua scorreva all’interno e ci furono danni agli impianti che erano già stati costruiti. Poi c’è stata una variante del sistema di riscaldamento, è cambiata l’impresa e varie vicissitudini hanno comportato enormi ritardi. Finché, adesso non ricordo gli anni esatti, c’è stata una nuova gara d’appalto e i lavori sono stati assegnati all’impresa Carena di Genova.

 

M.S. Scarpa era in vita o era già mancato?

F.V. Scarpa era ancora vivo, però da quando i lavori erano fermi non era più voluto venire a Trieste.

 

M.S. Scarpa si era dimesso dall’incarico nel 1971.

F.V. Si era dimesso ma credo che questa rinuncia da parte del professore fosse stata un po’ forzata. Quando il professore riceveva delle lettere le metteva da una parte, non aprendole non si sentiva responsabile. Sì, le ricevevo anch’io e cercavo di fare quello che potevo… Sennonché il Comune ha chiuso il contratto con il professore e ha lasciato l’incarico solo a me. Chiaramente gli ho chiesto se era d’accordo e lui ha detto «Sì sì, va 'vanti ti, dopo se ti gha bisogno se sentimo». Poi il professore è morto e io ho cercato di attenermi al massimo agli appunti che mi aveva lasciato senza aggiungere niente di “scarpiano”. Ho portato avanti i lavori fino al quarto-quinto lotto che comprendeva anche il rifacimento della copertura di palazzo Revoltella e la costruzione delle edicole espositive nel giardino pensile soprastante.

 

M.S. Stiamo parlando degli anni Ottanta o Novanta?

F.V. Degli anni Ottanta.

 

M.S. Dal momento in cui Scarpa ha rescisso il contratto al momento in cui è mancato lei è riuscito a farlo venire a vedere il cantiere in qualche occasione?

F.V. No, l’ultima volta che il professore è venuto mi pare che i lavori non fossero ancora stati assegnati all’impresa Carena, quindi erano ancora al grezzo. Doveva essere pochi anni, forse pochi mesi prima che partisse per il Giappone. Non ricordo esattamente, potrei verificarlo su degli appunti e degli articoli di giornale. Mi pare, anzi sono sicuro che lui non abbia visto neanche il rivestimento di tek.

 

M.S. Se potessimo fotografare l’ultima volta che Scarpa è venuto qui a vedere il cantiere, che cosa vedremmo in piedi?

F.V. Era contento della struttura che, essendo allora tutto libero, si notava bene. Adesso è parzialmente scomparsa sotto gli interventi che si sono susseguiti, ma in quel momento si vedeva tutta la struttura al grezzo in cemento armato, i vari solai, i grandi arconi sospesi che separano la zona a doppia altezza dei depositi, i tiranti che sostengono i solai sottostanti.

 

M.S. Questo soffitto era solo disegnato?

F.V. Era già gettato al grezzo, non c’erano i vetri.

 

M.S. Le ha mai fatto cambiare qualcosa in opera?

F.V. No. Comunque questo soffitto era definito dalla struttura perché in corrispondenza del punto dove si avvicinano le due file di lucernai c’è una trave in spessore esterna al solaio, perciò la cadenza era quella. Anche il vano dell’ascensore era già definito. Ci sono stati cambiamenti solo nelle edicole che lui non aveva ancora visto perché quei lavori non erano neanche cominciati. C’erano i progetti definitivi di tutte le opere eseguite, le opere edili e anche i particolari costruttivi del rivestimento esterno, dei serramenti, della passerella ecc. La passerella collegava le due aule di figura e di incisione previste nel museo... adesso sono state stravolte, non hanno più la stessa funzione perché ci sono gli ampliamenti della biblioteca.

 

M.S. Erano tutti particolari che aveva elaborato lui?

F.V. Erano tutti particolari che avevo preparato io.

 

M.S. Lei, ad Asolo?

F.V. Su sue indicazioni, ad Asolo erano stati fatti degli appunti.

 

M.S. Che dopo lei elaborava a Udine?

F.V. Sì, li facevo a Udine e li portavo graficamente leggibili all’impresa. Per esempio, il rivestimento in tek era segnato su dei lucidi, su foglietti di carta svedese dove erano grossomodo indicate certe ripartizioni. Però il sistema di aggancio fu proposto da me, accettato da Scarpa ed eseguito successivamente, quando Scarpa non c’era più.

Finiti i disegni del quarto e quinto lotto, che prevedevano appunto le edicole sopra palazzo Revoltella, tutti i lavori edili di una certa importanza furono appaltati ancora sotto la mia direzione dei lavori. I rivestimenti, le finiture interne ed esterne furono appaltate con un sistema di associazione d’imprese: per evitare una nuova gara d’appalto raggrupparono le imprese edile, elettrica, di riscaldamento in un’unica società che aveva l’incarico di completare i lavori; la direzione di questi lavori fu affidata all’architetto Bartoli il quale volle che io rimanessi come direttore artistico, però la mia possibilità di intervenire era molto limitata. Lui curò tutti i successivi contatti con i Vigili del fuoco per la compartimentazione delle sale, che ha sconvolto un po’ tutto l’organismo. C'è un sistema distributivo abbastanza complicato per passare da una parte all’altra; a collegare il piano terra al sesto piano c’è solo l’ascensore perché l’idea originale era quella di salire all'ultimo piano e poi scendere con le scale nelle varie sale sottostanti, collegate anche al palazzo Revoltella.

 

M.S. La scultura dietro di lei, di Alberto Viani, dov’era?

F.V. In una sezione appare sul giardino pensile di palazzo Revoltella.

 

M.S. Quindi la pensava all'esterno.

F.V. Voleva riprendere l’idea originaria del palazzo Revoltella, dove il barone aveva la possibilità di salire sui tetti e aveva fatto fare una passeggiata lungo il perimetro per vedere il mare e i traffici che aveva sulla banchina sottostante. Il lavoro è stato un po’ snaturato dalle prescrizioni dei Vigili del fuoco e le finiture non sono quelle che normalmente si vedono in un'opera di Scarpa.

 

M.S. Comunque resta questa fortissima idea di un intero spazio che viene in qualche modo frammentato ma rimane leggibile attraverso il cortile.

F.V. Sì, attraverso il cortile. Molte cose sono state cambiate: la biblioteca doveva essere in contatto diretto con la sala sottostante, dalla biblioteca si potevano sentire le voci di chi cammina nel museo oppure nel cortile, nella zona di ingresso. Così non ci si poteva perdere, tutte le sale avevano un riferimento al nucleo centrale, come pure le varie scale che adesso sono state limitate.

 

M.S. Il programma comunque era molto complesso, prevedeva ad esempio una sala per proiezioni.

F.V. Appunto, la sala di audiovisione doveva essere più aperta, adesso è stato chiuso un po’ l'arcone centrale, c’è una separazione fra la sala vera e propria e il primo piano. Dal piano terra al piano sopraelevato delle mostre temporanee invece doveva esserci...

 

M.S. ... una comunicazione forte?

F.V. Un oratore posto al centro avrebbe dovuto essere visto da più punti; avrebbe dovuto esserci una certa [interazione] che adesso non c’è.

 

[Non viene riportata una parte dell’intervista in cui F.V. si muove all’interno del Museo].

 

Appendice sul viaggio in America

 

M.S. Il viaggio in America che avete progettato di fare con Scarpa sarebbe stato dedicato tutto a Wright?

F.V. Sì.

 

M.S. Non comprendeva le opere di Louis Kahn?

F.V. No, siamo arrivati a New York, ci siamo fermati lì qualche giorno poi siamo ripartiti. Avevamo fatto un abbonamento aereo che non ci consentiva di andare da New York a Los Angeles direttamente; potevamo fare brevi tratte, 100 o 200 miglia, e avevamo impostato il programma in base a questo. Fra Kansas e Missouri abbiamo visto una chiesa che allora era poco documentata le prime case, fra cui quella circolare che ora non ricordo dov'è.

 

M.S. Comunque era un itinerario monografico.

F.V. Sì, abbiamo fatto tappa in vari Stati e poi ci siamo fermati più a lungo a Los Angeles e a San Francisco. Da Los Angeles siamo andati nel deserto a Taliesin West: era piena estate e non c’era nessuno, solo dei ragazzi che facevano lezione. Abbiamo visto le case, quelle miniature con elementi prefabbricati in cemento. Poi siamo andati a Taliesin Est e lì abbiamo visto anche la sua tomba perché Wright era già morto. Siamo andati a casa sua ma la moglie non c’era. Poi siamo andati a vedere architetture intorno a Chicago, le ville, la sala degli unitariani.

 

M.S. Wright muore nel 1959.

F.V. Allora noi siamo andati lì negli anni Sessanta.