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Videointervista

Guido Pietropoli
collaboratore

luogo: Treviso, Centro Carlo Scarpa
data: 20 aprile 2009
intervista di: Orietta Lanzarini
durata: 01:28:52 + 01:05:40

principali opere citate: allestimento “Carlo Scarpa” al Heinz Gallery - RIBA, casa Ottolenghi, Complesso monumentale Brion, Università Ca' Foscari, sede della Facoltà di Lettere e Filosofia (portale), villa Il Palazzetto
biografie: Guido Pietropoli, Orietta Lanzarini

Orietta Lanzarini [O.L.] Quando e in quale occasione hai conosciuto Carlo Scarpa?

Guido Pietropoli [G.P.] L’ho conosciuto quando ero studente: mi sono iscritto ad architettura nell’anno accademico 1964-1965 e ho frequentato lo IUAV fino al 1970, perciò quando Scarpa era docente. Lo vedevo girare per la facoltà ma lo conobbi meglio assistendo a qualche lezione, soprattutto quelle su Wright che fece al ritorno dagli Stati Uniti dove aveva raccolto molte diapositive; e, personalmente, quando gli chiesi di potermi laureare con lui, dopo il 1968. Prima di allora non avevo pensato di laurearmi con Scarpa perché la mia formazione era stata più corbusieriana. Proprio nell’aprile del 1965 – credo – Le Corbusier venne a Venezia a presentare il progetto dell’Ospedale, sono cose che ti segnano; ci sembrava – a me, a Mario Botta, ai fratelli Petrilli, a tanti altri colleghi di corso – che fosse quella la strada giusta verso l’architettura. Successivamente mi capitò di passare per piazza San Marco e di vedere il negozio Olivetti; potrei ripetere quello che Scarpa diceva di Wright: «mi portò via come un’onda». Nel frattempo allo IUAV ci fu una grave messa in discussione dell’insegnamento e io sentivo la necessità di riferirmi a una personalità che avesse la mia stima e la mia fiducia; in più ero dell'opinione che l’architettura fosse un mestiere tradizionale che non avrei potuto imparare senza la guida di un maestro. La scelta di Scarpa fu quasi scontata anche se era il meno professionale, anzi l’antiprofessionista della Facoltà.

 

O.L. Che cosa intendi? Scarpa era lontano dal modo in cui la professione si svolgeva in quegli anni? O ti riferisci a un suo particolare atteggiamento?

G.P. Probabilmente un’opinione sul professionismo o meno di Scarpa me la sono fatta solo successivamente. In certi momenti, quando lo frequentavo e lavoravo con lui, quasi mi pentii di aver accettato un tipo di formazione che trasmetteva modi di operare poco professionali. In seguito, pensando all’aforisma che dice «ci si guardi da ogni professione, chi si dedica ad essa diventa plebeo», mi sarei pentito di aver ricercato il rigore del professionismo. Certamente il professionismo ha i suoi lati positivi come quello della responsabilità, ma ora, per paradosso, sono convinto che un buon architetto debba essere anche un po’ irresponsabile. Allora vedevo che il professionismo di molti docenti era un produrre moneta corrente; Scarpa invece – forse ne sono stato cosciente dopo – produceva oro che si è mantenuto nel tempo; lo testimonia la sua architettura che è sì riconoscibile ma mai datata, e che ha tutt’ora una sua alta capacità d’espressione.

 

O.L. Com’erano le lezioni di Carlo Scarpa e i suoi rapporti con gli studenti?

G.P. Credo che Scarpa amasse immensamente la sua professione di docente, per molti motivi. Uno dei libri ancora da scrivere, fra gli altri, è Carlo Scarpa come educatore. Scarpa era certamente un educatore, un guru, una persona che amava i suoi studenti per la freschezza e anche per l'ingenuità del loro pensiero; forse gli studenti gli servivano a capire meglio il proprio operato e in loro vedeva riflessi gli idola tribus, cioè le carenze della società e dell’insegnamento universitario dell’architettura, in particolare allo IUAV. Era portato per l’insegnamento, aveva una grande facilità nello spiegare e nel mostrare le cose, più che nel dimostrarle. Raramente citava fatti recenti o teorie; disegnava e nel momento in cui correggeva un lavoro si metteva alla pari degli studenti. Certamente c’era un gap formidabile fra l'uno e gli altri, che non avevano la sua abilità, la sua memoria... però qualsiasi idea pertinente al lavoro veniva accolta, non era mai banalizzata. Quando andai la prima volta ad Asolo a portargli la mia tesi, mentre salivo le scale pensavo «chissà quanti studenti saranno venuti qui»; ero sconfortato dal fatto che io potessi essere il millesimo o il milionesimo studente di Scarpa; poi, grazie alla sua educazione, mi resi conto che di Pietropoli, nel bene o nel male, ce n’era uno solo e Scarpa, da poeta, avrebbe saputo riconoscere questa individualità. Le sue lezioni erano molto divertenti, non c’era alcun paludamento accademico. Una frase che ripeteva spesso era «Scusate se mi interrompo, vi guardo in faccia e mi distraete perché io guardo con gli occhi, non mi guardo il cervello come fa Tafuri», un modo per dire che per lui la lezione non poteva prescindere dall’esperienza dell’uditorio. Le prime lezioni che seguii, che non appartenevano al vero e proprio corso che avrei frequentato in seguito, furono quelle, memorabili, su Wright a cui ho accennato: portò le diapositive e, come in una riunione tra colleghi, raccontò di tutto, anche il disagio di dormire nel letto di Wright e il desiderio di andarsene via il prima possibile perché gli sembrava che ormai, morto il maestro, fosse tutto fasullo.

 

O.L. Com’erano i rapporti di Scarpa con gli altri docenti dello IUAV?

G.P. Allo IUAV lo vedevo solo arrivare, girare per i corridoi, fare lezione, correggere i lavori degli studenti nel suo studiolo (dove tutti cercavano di entrare per assistere a queste revisioni). I suoi rapporti con gli altri docenti erano più visibili nelle assemblee generali o nei consigli di facoltà durante l’occupazione. Lì si poteva coglieva l’irritazione di Scarpa verso certi colleghi che riteneva cavalcassero la protesta giovanile per fini personali. Con alcune persone come Zevi o Albini aveva ottimi rapporti, però nel periodo in cui io frequentai lo IUAV non c’erano più e non credo ci fossero tante altre occasioni di sinergia tra docenti: erano tutti abbastanza anziani, avevano tutti una professione che li impegnava fuori dall’università, per cui non avevano motivo di vedersi. Prima doveva essere diverso: Scarpa mi raccontava che durante i suoi primi anni allo IUAV, dalla sua casa di Rio Marin si divertivano a proiettare diapositive dei quadri di Mondrian sulle facciate delle case dall’altro lato del canale per creare un effetto urbs picta su Venezia; a questi incontri partecipavano Zevi, Albini e altri, ma credo che dopo il 1965 non si siano più ripetuti. Quando lo frequentai a Vicenza negli anni successivi, fino al 1978, ebbi l’impressione di una grande solitudine, perché certe amicizie si erano ridotte, anche il sodalizio con Mario de Luigi. Anche i rapporti di età erano cambiati, chi lo frequentava era abbastanza più giovane di lui: Carandente, Mazzariol e altri; di questi forse solo Mazzariol tenne con lui dei rapporti amicali continui. Poi c’erano amici dall’estero, come Stefan Buzas e Alan Irvine, persone a cui Scarpa voleva bene; fino all’ingresso di persone nuove come Aldo Businaro e Peter Noever, il direttore del Museo di arti applicate di Vienna, che lo amava molto e veniva a trovarlo.

 

O.L. A un certo punto hai deciso di laurearti con Scarpa, te lo propose lui?

G.P. Per chiedergli di potermi laureare con lui, subito dopo il 1968, gli dissi che ero anche disposto a pulire i pavimenti dello studio pur di vederlo lavorare. Scarpa mi rispose «Vieni su e ne parliamo». Proposi una tesi su una nuova edificazione residenziale nella città murata di Monselice, lui accettò e da allora andai molte volte ad Asolo. Credo che Scarpa sapesse capire le intenzioni degli altri da semplici atteggiamenti: una volta lo accompagnai a comperare del pane in un forno a legna appena fuori Asolo; da allora, quando andavo a farmi correggere il lavoro (di solito erano sessioni di mezza giornata) passavo dallo stesso forno a legna a prendere il pane e dopo lui mi invitava a pranzo. Forse io avevo bisogno del pane (della conoscenza) e a lui faceva comunque piacere invitarmi.

 

O.L. E dopo la laurea?

G.P. Dopo la laurea mi sposai immediatamente, presi casa a Montebelluna ma solo per quattro mesi perché dovevo partire militare. Dopo il servizio militare aprii uno studio a Monselice e continuai a collaborare con Carlo Scarpa. Nel suo studio di Asolo lavorai per un periodo stanziale di 4-5 mesi prima del militare; quando ritornai Scarpa si era già trasferito a Vicenza perché l’avevano sfrattato da quell’appartamento, che era molto bello, e Federico Motterle gli aveva trovato una sistemazione alla villa dei Nani a Vicenza.

 

O.L. Qual è la prima opera alla quale hai lavorato insieme a Scarpa?

G.P. L’espressione «lavorato insieme» nel caso di Scarpa è accettabile ma implicherebbe delle spiegazioni. Comunque, appena arrivai mi pose il problema dei vetri della cappella del cimitero Brion che voleva inserire nei muri in maniera tale che non si vedesse l’intelaiatura del serramento. Allora studiai una feritoia per inserire il vetro da una parte, farlo scorrere ed entrare completamente nell’alloggiamento per poi bloccarlo. Il primo tema che affrontai fu questo rompicapo costruttivo per il quale avviai una soluzione che poi fu elaborata personalmente da Scarpa. Seguirono i progetti del Country Club di Vicenza, dell’organo per la chiesa dei Frari a Venezia, e altri.

Succedeva che io restassi anche delle mezze giornate senza far niente perché non è che Scarpa sapesse programmare bene il suo lavoro né che fosse abituato a chiedere l’aiuto degli altri; vi ricorreva per disperazione ma era abituato a farsi tutto da solo. Certe volte passavo i pomeriggi a guardarmi i progetti precedenti, a osservare i disegni originali di Wright per casa Masieri oppure quelli di Scarpa per il tavolo Doge. Per me erano momenti di formazione e di divertimento, ma da parte del professore era il comportamento meno professionale che si potesse immaginare.

O.L. Per Carlo Scarpa il disegno è lo strumento progettuale fondamentale, come dimostrano le migliaia di fogli conservati in questo archivio. Come si comportava con voi collaboratori da questo punto di vista? Disegnava di fronte a voi ma anche con voi per spiegarvi i progetti?

G.P. Il disegno è senz’altro lo strumento principale utilizzato da Scarpa. Anche se apparentemente lo ha usato in maniera assolutamente tradizionale, credo che abbia anticipato molte tecniche che oggi appartengono al computer, sarebbe un argomento da affrontare. Da Scarpa ho appreso il piacere del disegno: nei primi anni ad Architettura eravamo abituati a disegnare su quelli che allora erano i normali supporti: carta da lucido… la fase di messa in bella su lucido ci dava soddisfazione (però se c’era un errore ti veniva un coccolone perché non si poteva cancellare e bisognava far finta di non vederlo o buttar via il foglio) ma niente di più. L’uso di cartoni e di altri tipi di carta da parte di Scarpa invece mi ha trasmesso un piacere anche fisico; sulla carta che utilizzava lui la matita scorre e il pensiero gira, mentre la carta da lucido è per sua natura repellente, è uno dei supporti più inospitali per il disegno. Con Scarpa si disegnava moltissimo a schizzo: aveva dei rotoli di carta sottile, prima la bianca svedese – Vangshir – e dopo, quando Louis Kahn gliene regalò dei rotoli, la gialla (Canary tracing paper), che veniva adoperata anche per i disegni definitivi (era considerata una carta pregiata se non altro perché gliel’aveva regalata Kahn). Scarpa disegnava incessantemente, il suo pensiero veniva illustrato sempre con schizzi. Chi ha esperienza dell’archivio si accorge che molto spesso la nascita di un pensiero, le sue successive modificazioni, i dietrofront ecc. sono ricostruibili dalla sequenza delle veline e poi dalla trascrizione del disegno su carta più pesante. Credo che chi volesse studiare i processi creativo-conoscitivi qui troverebbe del materiale formidabile; è come osservare i fermoimmagine di un filmato: dalla velocità e tecnica di uno schizzo si capiscono l’idea che sopravviene, l’idea che viene abbandonata, l’idea che viene fissata e poi rielaborata. In questo senso si potrebbe parlare di una tecnica di disegno per layer, che è quella che ora viene utilizzata normalmente nel disegno al computer e che permette di “accendere” o “spegnere” determinati strati. Scarpa parlava spesso delle tavole anatomiche trasparenti con cui, sfogliando le pagine, si poteva “spolpare” fino in fondo un corpo umano. Mi ha insegnato un’analisi dell’architettura attraverso la sovrapposizione o il diradamento di layer, e questo è stato straordinariamente formativo, profondo.

I disegni finali dai quali noi trascrivevamo i lucidi fiorivano misteriosamente di notte: il giorno dopo li vedevamo sul tavolo e ce ne stupivamo perché, se c’era sempre un momento in cui il processo compositivo appariva chiaro, ce n’era anche uno in cui ti domandavi «come ha fatto a passare da quella soluzione a quest’altra?»; in alcuni casi le citazioni, i rimandi a una certa memoria erano riconoscibili, in altri casi c’era uno scarto.

So che la mattina controllava l’umidità della stanza, provava la matita per vedere se scorreva, cercava di capire se la giornata sarebbe stata favorevole a quella sua “danza cosmica”… credo che avesse una ipersensibilità che gli permetteva di cogliere cose che noi non percepivamo e di approfondire temi solo apparentemente marginali. Lo ricordo ragionare sulla scelta del verso di una scala a chiocciola: a noi all’epoca sembrava una questione di lana caprina poi, magari leggendo Il simbolismo della messa di Carl Jung, ci si accorge che la rotazione del turibolo nell’uno o nell’altro senso ha un significato diverso e che ogni scelta che si fa ha un senso simbolico, sacrale. Quando mi chiese da che parte del letto dormivo mi imbarazzai perché mi sembrava una violazione della mia privacy, ma poi mi disse: «è importante perché voglio sapere da che parte devo mettere Onorina e da che parte Giuseppe». Visto che l’arcosolio è una specie di talamo, di camera nuziale, la scelta di dove mettere l’uomo e la donna non è irrilevante.

 

O.L. Credi che le opere di Carlo Scarpa creino intenzionalmente una sorta di reazione fisiologica nello spettatore, che esistano cioè dei meccanismi dell’architettura creati apposta per sollecitare una certa reazione fisica?

G.P. Credo di sì: intanto Scarpa era mancino e questo secondo me lo obbligava a spiegare certe sue scelte. Credo che Scarpa considerasse il corpo come un codice di trascrizione dell’esperienza. Scarpa non ha mai considerato lo spazio isotropo, l’ha sempre considerato anisotropo, con qualità diverse per ogni direzione: alto, basso, sinistra, destra… Era una riflessione che derivava da se stesso e dalla conoscenza dell’architettura antica. Nell’architettura del passato, ad esempio in quella cristiana, l’ordinamento secondo parti del corpo è fondamentale: la chiesa aveva l’ambone da una parte, poi lo ha spostato da un’altra; l’edificio della chiesa è un corpo mistico di cui l’abside è la testa. Credo che Scarpa avesse ben chiara la corrispondenza tra un’architettura e le sensazioni che essa può indurre in coloro che la esperiscono attraverso il proprio corpo. Scarpa ad esempio fissa in 1,65 metri l’altezza dell’occhio con cui l’osservatore percepisce l’architettura: la guida per fissare i quadri alla Querini Stampalia è messa all’altezza del suo occhio e crea una prospettiva piatta, né ascendente né discendente, diversamente ad esempio da quanto accade nel San Girolamo di Dürer dove la prospettiva dal basso esalta il santo ma alza l’orizzonte della visione. A ciò si aggiunge la componente fisico-tattile dei materiali che in Scarpa è straordinariamente esaltata. Credo di ricordare, forse l’ho già detto, che Scarpa avesse una particolare forma del polpastrello che terminava a goccia (mi vanto di averla anch’io così), una forma che gli permetteva di riconoscere i materiali anche senza toccarli, a distanza. Difficilmente Scarpa sarebbe stato tradito da un finto materiale per questa sua specie di sensibilità extracorporea.

 

O.L. A proposito dei materiali, che è un tema molto interessante e spesso frainteso, Licisco Magaganto diceva che Scarpa non amava le materie preziose bensì la materia. Cosa ne pensi?

G.P. Mi è difficile ora impostare un discorso sulla materia. Possiamo dire, anche se è vero solo in parte, che Scarpa amava la verità dei materiali. In analogia con l’arte culinaria, si può dire che Scarpa amava mangiare e che amava mangiare cose semplici, piatti che conservano i sapori dei loro ingredienti. Forse in questo senso era abbastanza vicino alla cultura giapponese che addirittura predilige il crudo rispetto al cotto perché esprime meglio i sapori originali. Penso che Scarpa, nel design e nell’architettura, non amasse certi artifici. Penso ad esempio al padiglione dell’Esprit Nouveau che Le Corbusier sembra far galleggiare sospeso da terra; nella versione che è stata realizzata a Bologna le strutture inferiori sono dipinte di nero, forse Scarpa non le avrebbe dipinte in quel modo, semmai avrebbe adoperato dei materiali di colore naturalmente scuro. Credo che Scarpa condividesse la critica di Palladio a Paolo Veronese per i trompe l’oeil e gli affreschi nella villa di Maser, perché scenografia e architettura sono cose diverse. Mi ha ripetuto spesso: «non è buon scenografo chi è architetto e non è buon architetto chi è scenografo».

D’altra parte questa sincerità di materiali non va intesa in senso assoluto; ad esempio ricordo che quando parlammo del portoncino d’ingresso dell’edificio di contrà del Quartiere a Vicenza mi disse che voleva sabbiare il legno e quando io osservai che sarebbe stata una lavorazione disneyana, un finto antico, mi rispose «faccio quello che voglio, se mi piace così deve venir bene». In pratica non si faceva scrupolo di utilizzare tecniche “invasive” pur tenendosi sempre all’interno di una verità del materiale, forse anche preoccupato della sua durevolezza: aveva l’impressione che se i materiali fossero stati impiegati nella loro veste genuina, senza contraffazioni, sarebbero durati di più. Il problema di fare un’architettura durevole l’ha sempre molto appassionato, anche se in effetti la sua è un’architettura molto fragile perché la presenza di metalli e di molti componenti può compromettere la durevolezza di un manufatto.

 

O.L. Vuol dire che prevedeva questo aspetto fin dal momento in cui progettava?

G.P. In parte sì: in certe opere, come nel negozio Olivetti ad esempio, credo che avesse previsto l’invecchiamento in termini di valore aggiunto. In altri casi ha sofferto per alcuni errori; mi pare di ricordare che si lamentasse di aver sbagliato il ponte termico della finestrella che dà la luce zenitale alla saletta di Castelvecchio con i reperti di oreficeria longobarda: all’interno del profilo in ferro si era creata della condensa che aveva rovinato il marmorino verde. Peraltro, se si andasse a guardare la nuova Galleria d’arte moderna di Berlino di Mies van der Rohe, che viene presentato come il miglior tecnologo dell’architettura moderna, ce ne sono di disastri da restaurare per via di errori dovuti a ponti termici o a un uso scorretto dei materiali. In alcuni casi Scarpa prevedeva l’invecchiamento, usava materiali che l’invecchiamento avrebbe mantenuto accettabili o che addirittura avrebbe esaltato. Del calcestruzzo evidentemente al tempo avevamo una conoscenza limitata. Per la scala dei Businaro realizzata trent’anni dopo Tobia ha chiesto di utilizzare acciaio inox all’interno dell’armatura; forse l’avrebbe adoperato anche Scarpa nel cimitero Brion se a quell’epoca fosse stato disponibile. Il cimitero ora risente molto dei problemi di copertura dell’armatura in ferro.

 

O.L. Come riusciva Scarpa a spiegare ai committenti tutti questi aspetti, il senso dell’opera dal punto di vista progettuale, compositivo, materiale ecc.? Partecipavano di questa visione, la accettavano? Che rapporto aveva Scarpa con i suoi committenti?

G.P. Ti rispondo con l’attributo usato fa Stefan Buzas, il quale chiamava Scarpa «il mago». Il committente aveva una specie di fascinazione nei riguardi di Scarpa: se decideva di proseguire il lavoro era perché ne era affascinato, e se era disponibile a seguirlo o addirittura a semplificargli i problemi invece che creargliene c’era una buona probabilità che l’opera venisse bene. Il caso più fortunato è certamente quello di Aldo Businaro che rarissimamente avanzò obiezioni, un po’ perché aveva scelto tutti interventi dai costi ragionevoli e un po’ perché era disponibile a spendere qualcosa di più del previsto. In altri casi, certi approfondimenti o ripensamenti potevano comportare sforamenti anche notevoli del budget. Per altro Scarpa non era un uomo di mondo, altrimenti avrebbe saputo di quante e quali varianti, demolizioni e ricostruzioni facevano i suoi colleghi in quel periodo. Certo, se il committente lo seguiva con fiducia sapeva di dover accettare anche qualche correzione, ma Scarpa rarissimamente avrebbe approvato qualcosa senza condividerla; però se c’era un errore cercava sempre di correggerlo o di assorbirlo nell’opera trasformandolo in un fatto espressivo. Al cimitero Brion quattro o cinque sbagli di questo tipo sono stati lasciati e hanno finito per diventare delle curiosità che ancora oggi destano meraviglia. È il discorso del triangolo che citava anche Wright: per stare in piedi un piano deve avere almeno tre gambe, per questo servono un architetto, un committente e un impresario; non devono essere necessariamente tutti dei geni ma tra loro deve esserci cooperazione, una gamba in più tiene meglio e una gamba in meno fa cascare tutto.

 

O.L. Che rapporto aveva Carlo Scarpa col cantiere? Come si rapportava con gli operai e con voi sul posto?

G.P. Non riesco a generalizzare, posso solo parlare dei miei ricordi di cantiere. È noto il fatto che Scarpa non aveva la macchina; anche per questo lo accompagnavo al cimitero Brion oppure da qualche artigiano, i fabbri Zanon o Eugenio de Luigi, quando non erano sul cantiere anche loro. Per i lavori di Brion, ogni sera verso le sei Bratti veniva ad Asolo a farsi spiegare o rispiegare le cose che avrebbe dovuto fare (Scarpa aveva l’abitudine di disegnare molte parti sullo stesso disegno, rendendone faticosa la lettura). Diceva: «Me fa uno schisetto, me basta questo, me serve per doman». Credo che il professore non avesse sempre consapevolezza del livello culturale delle persone che aveva di fronte o della stima che lui stesso riservava loro: sentiva il dovere di spiegare loro le motivazioni che lo avevano portato a una determinata scelta e, soprattutto, cercava in loro il conforto per tali scelte, si preoccupava che il suo ragionamento fosse condiviso da chi avrebbe eseguito l’opera. Ad esempio si preoccupava di come venivano disarmate le casseforme perché in alcuni casi c’erano dei sottosquadri, c’erano getti che se disarmati male potevano andare distrutti; si preoccupava che il disegno in proiezione ortogonale fosse leggibile anche tridimensionalmente per cui aggiungeva degli schizzi per facilitarne la lettura.

Ricapitolando, una fase del cantiere Brion consisteva nella spiegazione serale a Bratti; un’altra nel sopralluogo sul posto dove venivano tenuti grandi fogli di carta da pacchi marrone chiaro su cui, con un carboncino, Scarpa illustrava il disegno di un pezzo in una specie di assonometria rotante, per cui veniva visto da sotto, da sopra, ecc. Dopo venivano visionati i materiali, il legno a morello, il legno col pelo. Quando si dovevano disarmare i tetti Bozzetto era molto preoccupato che le gocce d’acqua cadendo potessero rovinare la faccia superiore del getto, invece Scarpa diceva che quella era la sua qualità «naturale»: che il tetto potesse avere queste magagne naturali lui lo accettava tranquillamente. Invece non voleva che le tavole fossero mai giuntate di testa, dovevano essere immorsate. Questa cosa me la spiegava aprendo un libro su Paul Klee e dicendo: «Vedi, se lui le linee orizzontali le avesse tagliate tutte verticalmente la forma si sarebbe spezzata, invece incastrandole…»; poi apriva dei libri sul cemento armato e continuava: «Questo qui sarà un bravo ingegnere però non capisce niente di forma perché sembra che si sfasci tutta; ciò che imprime la cassaforma è un fatto formale che non è trascurabile».

Pur trovandosi di fronte a un personaggio insolito, credo che gli operai riconoscessero in Scarpa i meriti di un’assoluta coerenza e della condivisione dei problemi. Raramente ho visto persone che si indispettivano, il cantiere funzionava bene se c’era questa armonia, questo rispetto reciproco. Soprattutto con gli Zanon, quando dicevano «non si può fare» oppure «si può fare ma noi non ne siamo capaci», Scarpa proponeva di trovare un modo per modificare il pezzo. Credo che tenesse il progetto in grande considerazione ma che pensasse che era il processo a dare verità al progetto. Non dovevano esserci forzature irragionevoli nel processo; doveva esserci continuità fra le scelte progettuali e le modalità esecutive. Non ricordo che abbia mai imposto lavorazioni che non fossero accettate da chi doveva realizzarle. In questo senso credo che ci fosse una grande stima reciproca fra gli artigiani e Scarpa e, da parte sua, una grave insofferenza verso le lavorazioni – pitture, stucchi, calcestruzzi ecc. – che si fanno da sé in quanto l’abilità dell’esecutore sarebbe stata indifferente.

 

O.L. È uno degli aspetti in qualche modo fraintesi dalla storiografia, che ha fatto passare l’idea che Scarpa vivesse con sofferenza la realizzazione materiale dell’opera. Credi che fosse un “sacrificio” per lui adattare il progetto alla costruzione?

G.P. Non vorrei sembrare irriverente ma credo che Scarpa fosse un provinciale. Per “provinciale” intendo qualcuno che dà grande valore a quello che fa e che si sente fortemente immiserito, colpito o addirittura perso, quando commette un errore. La sofferenza di Scarpa nasceva dai propri errori. Credo che operasse con gioia, tanto più se aveva la possibilità di lavorare con persone che erano il prolungamento di se stesso, e cioè gli artigiani, che magari venivano importunati di notte per essere informati di una nuova idea ma che avevano la soddisfazione di essere coinvolti nella riflessione sull’opera. Come ogni grande poeta, credo che Scarpa fosse consapevole della propria inadeguatezza; da un lato riconosceva di essere migliore di tanti altri, dall’altro, banalmente, aveva il terrore che la sua ignoranza in fatto di regolamenti, leggi e codici venisse scoperta. Forse la sua preoccupazione, la sua ansia sul lavoro, nasceva dal fatto di non sentirsi riconosciuto all’interno di una classe professionale rispetto alla quale sapeva di poter rivendicare le proprie capacità.

 

O.L. Questa sorta di inadeguatezza era legata anche al fatto di non essere laureato in architettura? Come sappiamo, si era diplomato all’Accademia di Belle Arti e aveva il titolo di professore di disegno architettonico.

G.P. Credo di sì, anche perché a causa di questa mancanza subì dei processi. Resta il fatto che Scarpa ha sempre cercato di rendere “legale” la propria attività, ogni volta si affidava a un tecnico diplomato, a strutturisti come Carlo Maschietto, e certamente ha coltivato il desiderio che suo figlio Tobia Scarpa ottenesse un titolo di studio che lo tutelasse nell’esercizio della sua professione. Per quanti riconoscimenti (peraltro dati a denti stretti) possa aver ottenuto dall’ambiente accademico, credo che non si sia mai tranquillizzato completamente. In certi momenti superava il disagio di non avere il titolo di studio appropriato riconoscendo di essere un architetto tradizionale che operava in continuità con la storia, ma in altri, quando doveva rapportarsi con l’autorità, il problema si ripresentava.

 

O.L. Come diceva Zevi, in un mondo burocratizzato come il nostro è strano che Carlo Scarpa abbia finalmente ricevuto un riconoscimento pubblico con la sua elezione a preside della Facoltà di Architettura di Venezia.

G.P. Questa vicenda andrebbe esplorata meglio, in ogni caso per certi versi è invece una conferma di quel mondo burocratizzato perché, se ben ricordo, Scarpa fu nominato preside perché non ci si era accordati su chi altri eleggere. Quando poi trovarono un accordo, mandarono su Carlo Aymonino e per lasciare a lui il posto qualcuno disse a Scarpa «O lei si dimette oppure facciamo occupare l’Università». I restanti anni del suo rettorato furono molto faticosi per il professore, il quale non era incline ad accettare certi compromessi o altri meccanismi del mondo accademico. Non credo che l’Università possa vantarsi di avergli dato un riconoscimento che serviva solo ad assicurarsi una figura di transizione alla presidenza dell’Istituto; al contrario, credo che Scarpa avrebbe volentieri accettato una laurea honoris causa, che l’avrebbe sollevato da molti disagi e che invece arrivò postuma.

 

O.L. È una vicenda complessa, fin dal 1956 tentarono di dargli la laurea honoris causa…

G.P. Il suo maggiore accusatore fu l’architetto Leomberto Della Toffola, la cui compagna – sembra – era stata assistente di Scarpa ma da lui non particolarmente valorizzata. In quell’occasione l’unica istituzione ad aver dato segni di intelligenza e di lungimiranza, al contrario di quel presidente dell’Ordine degli Architetti di Venezia, fu la magistratura, che guardò al prodotto e liberò Scarpa dall’onta dell’abuso della professione.

 

O.L. A proposito dei progetti ai quali hai collaborato, come è stato il tuo rapporto con Scarpa, anche in relazione al fatto che molti di essi non sono stati realizzati?

G.P. Nel caso di Brion, sinceramente non capivo molto di dove andasse a parare il progetto, se ho capito qualcosa è stato dieci anni dopo. Probabilmente guardavo Scarpa attraverso dei filtri. Ricordo che in alcuni casi dicevo: «ma questo non è un dettaglio “scarpiano”» perché lo riconducevo ai precedenti senza rendermi conto che il suo era un linguaggio in evoluzione e che poteva avere degli esiti diversi da quelli che già conoscevo. Il motivo che mi aveva spinto a lavorare con Scarpa era di apprendere un mestiere; ma nella mia ingenuità, nel mio provincialismo, pensavo che questo mestiere fosse un repertorio di forme e soluzioni. Solo dopo, entrando a fondo nella creazione di un’opera, ti rendi conto che le scelte possono essere completamente diverse.

Il fatto che molte opere non siano state realizzate era abbastanza naturale, dipendeva da fatti contingenti, dal fatto per esempio che un committente si accorgesse di non avere la disponibilità economica per continuare. In alcuni casi credevo anch’io che avessero ragione a non dare corso a certe idee, io stesso non sempre ho avuto fiducia cieca nel lavoro di Carlo Scarpa. Se pensiamo alla Banca Antoniana di Monselice, ad esempio, più guardo quel progetto più mi rendo conto che, al di là della fascinazione formale, molte scelte erano anche ottime soluzioni razionali a problemi concreti: il sollevamento dell’edificio, i lucernari, la facciata posteriore incompiuta appartenevano a una scelta urbana importante. Le intuizioni di Scarpa a volte affascinavano altre disperdevano l’entusiasmo di chi lo seguiva. A distanza di tempo credo che molte cose non siano state fatte per poco ardimento dei committenti e anche dei collaboratori, e perché Scarpa stesso sentiva che non poteva spingere il progetto oltre una certa soglia se anche altri non lo condividevano e sognavano con lui. Naturalmente sapeva impuntarsi e pretendere, ragionevolmente, la realizzazione di una soluzione di alta qualità, però senza la condivisione degli altri rinunciava ad andare avanti pensando che i tempi non fossero maturi per la sua idea.

 

O.L. A quegli anni risalgono due eccezionali commissioni private, la villa Palazzetto per il suo amico Businaro e la bellissima casa Ottolenghi. In questo ultimo caso Scarpa ha trovato un committente collaborativo?

G.P. Per parlare di villa Ottolenghi bisognerebbe avere a fianco Pino Tommasi, che è mio amico e che iniziò a lavorare con Scarpa per questa casa. Alla morte di Scarpa, con lui abbiamo cercato di completare l’edificio che era in uno stato di cantiere molto avanzato ma non ancora terminato. Penso che il vero committente sia stato Bepi Mazzariol, già committente scarpiano per la Querini Stampalia e amico di Carlo Ottolenghi, presidente degli Ospedali Civili Riuniti di Venezia e avvocato di alto rango. Ottolenghi comperò un terreno sopra Bardolino, vicino al cimitero, dove sorgeva già una piccola casetta; voleva costruirvi una villa più grande destinata al figlio chirurgo e alla sua famiglia, ai bambini e alla moglie, una donna francese intelligente e sensibile. Ottolenghi figlio lavorava a Verona ma non voleva vivere in città. La superficie edificabile del lotto era modesta per cui, per raggiungere una volumetria decorosa, bisognava che parte dell’edificio fosse interrata. La casa è un’esplosione di triangoli, di piani inclinati, ci dovevano essere otto colonne (da Otto-lenghi) che poi sono diventate nove, tutti aspetti degni di essere approfonditi.

La contemporaneità con Il Palazzetto porta a sopravvalutare la somiglianza formale fra la copertura di casa Ottolenghi e l’aia della villa di Businaro; ma da studi che ho fatto, anche per la mostra qui al Centro Carlo Scarpa, mi sono reso conto che è come dire che i cinesi sono tutti uguali perché hanno gli occhi a mandorla. Le scelte compositive e i valori simbolici sottesi al Palazzetto e a villa Ottolenghi sono molto diversi, se pure i materiali e il linguaggio nell’uno e nell’altro caso si assomigliano. Nel caso di villa Ottolenghi – la mia può sembrare una frase inappropriata o addirittura irriverente – c’è qualcosa nelle sue forme scomposte che mi ricorda la sofferenza degli ebrei. Carlo Scarpa, al di là degli espedienti per riscattare la volumetria con una costruzione ipogea, non avrebbe fatto la casa in quel modo per un committente diverso. L’avvocato Ottolenghi, che ho conosciuto personalmente, aveva un sorriso dolorosissimo, molto bello. Di fronte a lui Pino Tommasi e io esitavamo a parlare; era lui a pagare i lavori e la sofferenza in quel caso era quella di venire a sapere che i conti erano diversi da quelli che si aspettava.

Per quanto riguarda le colonne fatte a rocchi, le si trovano nella chiesa di Bardolino ma anche in certe case di Frank Lloyd Wright che certamente Scarpa conosceva. Che la grande forza visiva di Scarpa derivasse dalla sua formidabile memoria è una verità ma anche una stupidaggine: è la memoria selettiva a dare qualità, altrimenti basterebbe un archivio; non credo sia più bravo colui che ha il dono di questa memoria ma chi riesce a creare un prodotto coerente all’interno di un discorso poetico ed espressivo e che deve tenere conto anche dell’immagine che vuol dare alla committenza.

Nel corso del progetto la casa Ottolenghi ha avuto diversi cambiamenti, sono interessanti quelli dovuti all’allontanamento progressivo dell’avvocato Carlo Ottolenghi che, se all’inizio aveva previsto una stanza per sé (che nel corso del progetto ha visto varie possibili localizzazioni), col tempo si è defilato.

 

O.L. È ancora in corso la mostra che hai curato qui, Scarpa e Il Palazzetto. Una rapsodia architettonica. Ci puoi raccontare di questo progetto?

G.P. Ci sono tante implicazioni, la prima è la mia amicizia con Aldo Businaro, che da un certo momento ci ha visti legati a Scarpa ma che era iniziata separatamente. All’epoca, parlo degli anni 1969-1970, Businaro faceva il rappresentate di mobili per industrie di arredamento importanti, diciamo per la culla dell’Italian Style (Cassina, B&B, ecc.). Negli anni Settanta, ti sembrerà strano, erano veramente pochi i negozi di design, italiano o svedese che fosse, a Padova, Vicenza o Rovigo. I pionieri di questa visione nel Veneto furono Renata Bonfanti, certi ceramisti… Businaro aveva con grande lungimiranza spinto Cassina ad acquistare i diritti dei mobili di Le Corbusier e di altri grandi architetti e designer. Businaro era anche molto vicino a Dino Gavina, certamente l’uomo più ingovernabile ma anche più geniale del design italiano di quel periodo, il primo a produrre i mobili di Breuer. Conobbi Aldo Businaro nel negozio di arredamento di un mio amico a Rovigo; tra le sue molte qualità aveva quella di fare amicizia immediatamente e con chiunque. Normalmente non è una qualità che apprezzi nei rappresentati di commercio invece, nel caso di Businaro, per me fu una folgorazione: Aldo sapeva come affascinare l’interlocutore con la forza del racconto. Iniziammo a parlare della sedia Tripolina, un oggetto più architettonico che di design, che si chiude a ombrello grazie a un meccanismo molto ingegnoso e che per questo veniva adoperata dai militari italiani in Africa: io la stavo acquistando lì a Rovigo, mentre Businaro mi disse che ne aveva portata una versione in legno-ferro dal Sud America. Poi il discorso si spostò sul Palazzetto che lui aveva iniziato a restaurare con Tobia Scarpa. Dopo Aldo conobbe Carlo Scarpa e quel che seguì è cosa nota.

Il Palazzetto è un edificio seicentesco, cubico, nella pianura di Monselice, che Aldo Businaro comperò dai fratelli al suo ritorno dal Sud America; fu lui stesso a intuire che si poteva vivere modernamente in un ambiente storico e che questo poteva essere ragionevolmente integrato da parti nuove come un puzzle. Aldo lo chiamava una «rapsodia» perché univa frammenti poetici di autori diversi. In pratica Aldo si innamorò del Palazzetto per com’era ma anche per come immaginava potesse diventare, per cui decise di restaurarlo avvalendosi di Tobia, che già conosceva, il quale disegnò il grande camino e altre cose. Si affidò anche ad altri amici architetti, ad esempio a Glennie Collin di stretta osservanza corbuseriana che sistemò la soffitta: poiché Aldo ospitava molte persone, credo che avesse voluto creare una sorta di camera di decompressione per chi, ad esempio, arrivava al Palazzetto da New York e aveva bisogno di un ambiente di transizione per reggere al salto nel Veneto. Battute a parte, mi sono divertito a definire il Palazzetto «lo Stato di Businaro» perché è un luogo circoscritto, una sorta di compound insospettato dall’esterno. Al Palazzetto Scarpa ha fatto un lavoro molto sapiente e puntuale di ricucitura e di messa in risalto di certe parti, oltre che nuove opere come il berceau. La barchessa è stata foderata di legno nero; poi c’è l’aia che fino a poco tempo fa io stesso interpretavo come una variante del tetto di casa Ottolenghi ma che invece, studiando la sequenza dei disegni che hanno portato alla soluzione finale, è qualcosa di diverso. Il progetto ha avuto fasi molto diverse, è partito da una soluzione a spirale, ma il significato più profondo dell’opera – l’armonia fra maschile e femminile, fra i “fondatori” della casa Aldo e Lucia Businaro – è rimasto invariato.

Aldo conobbe Scarpa durante un viaggio in Giappone che fecero grazie a Tobia, il quale vi era stato invitato con altri designer. Lì scoccò un amore profondissimo e continuo… Che cosa Businaro abbia visto in Scarpa lo si può immaginare, e viceversa: Aldo era un formidabile compagno di viaggio, conosceva parecchie lingue, aveva esperienza di molti luoghi e sembrava che di qualsiasi posto, anche se non c’era mai stato, lui sapesse tutto; questo tranquillizzava molto i suoi compagni di viaggio. Scarpa era divertito da questa leggerezza di Businaro che per di più era un committente che non diceva mai di no. Si divertivano entrambi: Businaro portava Scarpa alle terme di Chianciano, giravano insieme… Fu memorabile il viaggio che fecero a Madrid, credo nel 1978. Perdona l’aneddoto ma è abbastanza divertente: Businaro si fece prestare una Rolls-Royce da un suo amico di Monselice; Scarpa allora abitava presso la villa dei Nani, a Vicenza, in quel momento Losey stava girando il Don Giovanni e il professore era sempre alla finestra sperando di riuscire a cogliere qualche momento interessante delle riprese. C’era un via vai di cantanti e di comparse; Businaro arrivò e parcheggiò; quando Scarpa vide quella macchina costosa esclamò: «Varda ’sti porçei de registi», non immaginando che si trattava della loro vettura. Quando Businaro gli aprì la portiera il professore aveva un sacco di rotoli, i disegni che servivano per la mostra di Madrid; allargò le braccia e lasciando cadere tutto disse: «Sulla Rolls neanche con uno spillo».

Anch’io ho fatto dei viaggi con loro, ad esempio a Vienna quando fece la famosa lezione all’Accademia di belle arti. L’atmosfera era sempre allegra salvo la mattina in cui il professore doveva tenere la conferenza perché, come sempre quando si trovava in un ambiente che non conosceva, era terrorizzato; dovette bere qualche bicchiere di Sturm per rincuorarsi. Vienna era la sua patria culturale, per cui era onorato dell’importanza che gli riservavano ma anche molto preoccupato; tutti i ragazzi che assistevano alla lezione conoscevano bene le sue opere, lui si meravigliò di essere così noto all’estero.

 

O.L. Qualche anno fa villa Palazzetto è stata arricchita di un ulteriore elemento, una scala in facciata che era stata progettata da Carlo Scarpa e che poi è stata realizzata da Tobia Scarpa. Ci puoi parlare di questo intervento, del significato che ha rispetto all’opera?

G.P. La storia risale circa al settembre del 2000, quando aprì la mostra su Carlo Scarpa al Museo di Castelvecchio e a Vicenza, che considero la più importante degli ultimi anni. Personalmente non ho ricordi particolarmente significativi della mostra alle Gallerie dell’Accademia, mentre quella di Verona e Vicenza credo che avesse un approccio interessante e innovativo. A parte questo, in quell’occasione ci fu un riavvicinamento tra la famiglia Businaro e Tobia Scarpa che era presente all’inaugurazione. Aldo era ancora vivo – morirà sei anni dopo – ma il componente della famiglia più attivo nella conservazione di quest’opera era il figlio Ferdinando Businaro, insieme al fratello Federico. Ferdinando sapeva che il padre desiderava da sempre realizzare questa scala esterna, un collegamento diretto con il piano nobile che era già stato elaborato da Carlo Scarpa con Aldo Businaro. La mostra ora in corso qui a Treviso dà conto anche dei “conati” di Scarpa alle prese con il problema della scala in facciata che è sempre affrontato in collegamento con l’aia. Scarpa prima disegna una scala inclinata, poi finalmente arriva all’unica soluzione possibile che disegna in esecutivo ma che per vari motivi resta irrealizzata. In occasione della mostra del 2000 Ferdinando parte all’attacco pur sapendo che Tobia non ha mai accettato di completare opere del padre prima. In effetti non è per nulla semplice: quando io accettai di dare una mano a Pino Tommasi per completare la villa Ottolenghi alcuni mi accusarono di presunzione; io ero terrorizzato, naturalmente sapevo che avrebbero riconosciuto come mia ogni cosa sbagliata e come di Carlo Scarpa ogni cosa giusta, però mi sembrava stupido che fosse terminata da un geometra qualsiasi (dico geometra nel senso di agrimensore). Resta il fatto che Tobia non aveva voluto proseguire il progetto del teatro Carlo Felice né altre opere per motivi più che giustificati. Da quando era entrato in scena il professore, i rapporti di Tobia con Aldo Businaro si erano raffreddati ma da quel settembre 2000 si riavvicinarono e finalmente Tobia accettò di fare la scala. La rivide e la modificò in alcune parti affidandosi a uno strutturista formidabile, l’ingegner Giandomenico Cocco.

Il Palazzetto ha una qualità abbastanza singolare: è sempre bello e sembra sempre completo, non sembra richiedere ulteriori modifiche o integrazioni; se vedi le fotografie precedenti a un intervento pensi «andava bene così», poi vedi quelle successive e scopri che è ancora meglio. Quella della scala credo che sia stata un’operazione giusta e corretta; le leggere modifiche che ha fatto Tobia, la fioriera in fondo alla scala per esempio, sono giustificate dall’autorità del progettista, che non è un semplice esecutore ma è a sua volta un architetto. Il risultato è interessante e, se non chiude la «rapsodia», la arricchisce definendo lo spazio della corte che altrimenti sarebbe rimasto un incompiuto. D’altronde la storia dell’arte e dell’architettura è piena di lavori in progress che furono completati da altri.

 

O.L. Tu hai collaborato con Carlo Scarpa per due sue mostre personali, una a Londra e l’altra alla Domus Conestabilis di Vicenza. Cosa significava per lui mostrare le proprie opere?

G.P. La mostra di Londra precede la mostra alla Domus Conestabilis, vi sono state esposte più o meno le stesse fotografie, ma dopo chiarirò meglio questo punto. Nel caso di Londra Scarpa non allestì nulla perché trovò un ambiente già organizzato; a Vicenza invece si occupò lui di allestire lo spazio che gli era stato messo a disposizione.

A Londra eravamo alla Heinz Gallery in Portman Square, uno spazio espositivo del RIBA finanziato da quel ricco signor Heinz che in Italia conosciamo per il tabasco. La sala è dentro a un edificio di James Adam ed è una stanza di circa 8 x 8 metri con grandi bacheche di vetro su tre pareti e uno spazio centrale. È un luogo molto raffinato, disegnato da Stefan Buzas e Alan Irvine appositamente per ospitare mostre temporanee. Scarpa era già stato esposto al RIBA in una precedente mostra che si chiamava Great drawings from the collection (di cui conservo un piccolo catalogo) e ne era molto orgoglioso perché i disegni selezionati dal curatore comprendevano opere di Andrea Palladio, Christopher Wren, Inigo Jones, fino a Le Corbusier. Scarpa quindi conosceva questo luogo, gli piaceva; oltretutto la sua amicizia con Alan Irvine e Stefan Buzas era molto simile al sodalizio con Aldo Businaro. A Londra aveva già fatto, come allestitore, la mostra sugli Affreschi fiorentini. Per farla breve, Scarpa mi annunciò che questa mostra era prevista per il febbraio dell’anno dopo; durante l’estate andai a Londra e incontrai informalmente questi due architetti con i quali avrei instaurato un rapporto di grande amicizia. Quando dissi al professore di averli incontrati lui mi elesse automaticamente trait d’union tra Londra e Vicenza. All’inizio ne ero orgoglioso e non mi rendevo conto della serie interminabile di problemi che mi avrebbe procurato, perché a un primo momento di entusiasmo da parte di Scarpa seguirono i suoi dubbi e ripensamenti. Le date ormai erano stabilite, si diceva che forse sarebbe venuta anche la regina. L’Inghilterra stava vivendo un periodo di austerità per cui ci trovammo a lavorare con dei generatori elettrici perché dopo una certa ora toglievano la corrente ai locali pubblici. Nel frattempo Scarpa non sapeva decidersi: raccolse i materiali grafici ma quando cominciò a selezionarli oggi lo faceva e il giorno dopo vi rinunciava; poi decise per una mostra di disegni e fotografie (due bacheche di fotografie e una di disegni) per cui si fece mandare le master copy da Paolo Monti; quando arrivarono Scarpa iniziò a tagliare le fotografie, a ridimensionarle secondo la diagonale, cosa che farebbe inorridire qualsiasi fotografo. Non rispettava un formato preciso, ogni foto veniva ritagliata secondo il suo giudizio. Scelse anche delle fotografie di Ferruccio Leiss e di altri fotografi e si mise a comporre e ricomporre le vetrine in maniera ossessiva. La sera era contento e la mattina dopo buttava via tutto; intanto da Londra ricevevo continue e insistenti richieste di mandare il materiale per la stampa del catalogo; preso dalla disperazione misi tutte le fotografie in una scatola da cioccolatini che aveva lo stesso formato delle stampe e le spedii a Londra. Da Londra arrivò un cataloghino smilzo, giallo, con il saggio di Cantacuzino; il messaggio che l’accompagnava diceva «questo è il catalogo, adesso venga col materiale», in pratica il libretto serviva ad obbligare Scarpa a decidersi. Finalmente si rese conto che non poteva più tergiversare e fece stampare le foto su fogli di alluminio. Andai anch’io col professore a Londra e, come arrivammo all’aeroporto, Alan Irvine disse: «Che bello che siate arrivati, ma avete anche le foto?». E le fotografie, nonostante il suo scetticismo, noi le avevamo. Materialmente la allestimmo noi perché il RIBA era così convinto che non si sarebbe fatto niente che non aveva neanche predisposto degli inservienti; peraltro era una mostra molto semplice, simile a quelle che allestite qui all’archivio. L’Accademia Olimpica propose di replicare la mostra a Vicenza, dove Scarpa aggiunse molti più disegni di quanti non ce ne fossero a Londra. Che dire? All’inaugurazione mi avvicinò la signora Heinz e mi chiese «Is Scarpa still alive?».

Restammo qualche giorno a girare per Londra guidati da Stefan Buzas e Alan Irvine, che fra le altre cose mi fecero visitare il Soane’s Museum: ormai è molto famoso ma a quei tempi era una rarità assoluta, nessuno lo conosceva.

 

O.L. Parlavi delle vostre visite a Londra…

G.P. Il Soane’s Museum non lo visitai con Scarpa che forse c’era già stato; credo invece che andammo insieme a Kenwood. Di discorsi su Soane se ne fecero molti anche a Vicenza; credo che Scarpa invidiasse, nel senso positivo del termine, lo status di Soane, la sua posizione professionale, sociale, economica di grande prestigio, la sua figura di grande collezionista. Di sicuro non ne invidiava la vicenda familiare perché quello che avvenne tra Soane e i figli non è certamente cosa da augurarsi. Credo che di Soane gli interessasse molto la trasfigurazione degli spazi attraverso la luce e l’uso degli specchi. Mi viene da pensare che conoscesse anche la cultura massonica di Soane. Faccio un esempio banale: mi pare che per passare dall’ala domestica a quella architettonico-antiquaria della casa di Soane si attraversi una porta con il busto di Andrea Palladio, come a dire che per entrare nell’architettura non si può prescindere da lui; è un modo simbolico e analogico di spiegare le cose che probabilmente affascinava anche Scarpa. Soane era notoriamente un massone carico di cultura simbolica e io mi diverto a immaginare che Scarpa si assimilasse a lui per la funzione didattica che Soane si era assunto sia attraverso la sua collezione sia attraverso l’istituzione della sala per le esercitazioni degli studenti. Mi diverto a immaginare che Soane avesse prefigurato una possibile distruzione dell’architettura attraverso la nuova architettura; alla sua raccolta di testimonianze, gessi e reperti ho dato il nome “L’arca di Vitruvio”. Il doppio registro di Soane, fra volontà di conservare e desiderio di vedere gli sviluppi futuri è un tipo di sensibilità che apparteneva anche a Scarpa.

 

O.L. Scarpa ha mai collezionato qualcosa?

G.P. Scarpa aveva delle specie di Wunderkammer, delle bacheche in cui collezionava oggetti di pochissimo valore materiale: sassi, conchiglie, stoffe, piccole cose mai ostentatamente costose. In queste vetrinette aveva anche delle marionette, dei teatrini, oggetti che rimandavano all’infanzia e alla sua ingenuità; poi era un grande appassionato di lame e coltelli. Credo che avesse anche pezzi di grandissimo valore, mi fece vedere una specie di frustino giapponese per mescolare il tè verde e mi disse il suo costo in Yen. In Giappone lo stesso oggetto, dello stesso materiale – bambù per esempio –, può avere valori lontanissimi in base al grado di perizia esecutiva impiegato; credo che l’imperatore sia l’unico a poter avere due conchiglie che si possono avvitare l’una nell’altra e che provengono da mari agli antipodi;  il tortiglione della prima e la femmina dell’altra sono apparentemente normali ma il senso dei due è contrario a quello che si trova comunemente, non so se destro o sinistro giro. Al di là di questo il patrimonio maggiore consisteva nei libri.

 

[Da questo punto in poi G.P. illustra il progetto di San Sebastiano con specifico riferimento ai disegni].

 

O.L. Qui ci sono alcuni disegni della sistemazione del convento di San Sebastiano, sede della Facoltà di Lettere e Filosofia di Venezia, un progetto molto complesso del quale ti sei occupato e che purtroppo si è risolto con la sola realizzazione postuma del portale. Ci racconti la storia di questo lavoro?

G.P. L’Università di Venezia, che era a caccia di edifici in cui dislocare le facoltà, aveva comperato da certe suore il convento adiacente alla chiesa di San Sebastiano, la fabbrica dello Scarpagnino con i teleri di Paolo Veronese. Nota la divertente assonanza tra Scarpa e Scarpagnino: il nome Scarpa non ha niente a che fare con le calzature, viene da scarpello. Scarpa stesso diceva che in certe stagioni fortunate di scalpellini a Venezia ce n’erano settemila: si poteva sentire il tintinnio continuo dei loro scalpelli e la città era molto musicale. Comunque, il convento era stato raso al suolo da Napoleone e ne sopravviveva solo la sacrestia [sul disegno, in basso]; attorno, da un lato c’è una crustula esterna sul canale di San Sebastiano [a sinistra], dall’altro una serie di case gotiche extra moenia [in alto, con gli spessori dei muri colorati di giallo], un laboratorio [a destra delle case]: era una congerie di manufatti di epoche diverse, non restava alcuna traccia degli almeno due chiostri preesistenti che avevamo individuato nelle vedute di Jacopo de’ Barbari e in altre fonti. Probabilmente il livello della corte [al centro del disegno], che allora era uno spiazzo informe, era più alto perché raccoglie i detriti delle demolizioni del convento. La Facoltà di Lettere e Filosofia era presieduta da Bepi Mazzariol, che aveva il suo Istituto di storia dell’arte all’ultimo piano della parte gotica, il quale propose a Feliciano Benvenuti, allora rettore dell’Università, di assegnare l’incarico a Scarpa. Scarpa non era particolarmente entusiasta perché le preesistenze erano di qualità molto modesta, addirittura deprimente. L’edificio gotico era abbastanza interessante ma in altri manufatti acquistati, dopo una mano di bianco, erano stati insediati gli studenti.

Per farla breve, si mantenne l’ingresso dal campiello di San Sebastiano [in basso a sinistra] dove Scarpa disegnò la nuova facciata (che dopo la morte di Scarpa sarà oggetto di una feroce critica da parte di Vittorio Sgarbi). Nel cortile Scarpa interpose un nuovo corpo di fabbrica con un patio, realizzando un percorso esterno e un cortile successivo, poi organizzò diversamente i piani terreni degli edifici più profondi [in alto a sinistra]; ma il problema principale era quello di progettare un nodo scale che mettesse in collegamento livelli significativamente diversi: nella cartella troverai molti disegni che appartengono al progetto di questa scala cilindrica. Scarpa diceva che sarebbe stata nera come una peata. Probabilmente risente di certe opere di Louis Kahn, è una scala a due rampe con pianerottoli a settore circolare che avrebbero permesso la distribuzione alle varie quote. La parte gotica [a destra del corpo cilindrico della scala] era oggetto di un restauro più o meno conservativo, gli ambienti venivano liberati da superfetazioni.

I disegni di San Sebastiano furono esposti con lo stesso sistema adottato per l’Ospedale di Le Corbusier: sulle copie eliografiche colorate furono “graffettati” i lucidi disegnati a china, fogli di carta diafana che rendevano più morbidi i colori. Se si guarda con attenzione il foglio ci si accorge che il disegno è a mano libera, fatto abbastanza inedito per Scarpa. Trattandosi di un progetto di massima accettò che lo disegnassimo con la tecnica che chiamavamo tremblotante, tremolante, e che avevo imparato nel cosiddetto “atelier di Le Corbusier”, in realtà lo studio di Guillermo Jullian de la Fuente, l’architetto che aveva collaborato al progetto per l’Ospedale di Venezia. Su questa eliocopia colorata si vedono bene la scala cilindrica che sarebbe stata rivestita di legno nero e, in successione dal basso all’alto, una prima vasca d’acqua nel cortile d’ingresso, una grande ala polifunzionale, una successiva vasca, le aule, la connessione con la parte gotica, un magazzino ottocentesco. L’unica parte preesistente del convento, dove vediamo le colonne [in basso al centro], se ben ricordo toscane con volte a crociera, Scarpa decise di ampliarla per realizzare la biblioteca.

Al centro della planimetria generale del complesso si vede il sedime di un edificio quadrato con quattro serie di pilastri accoppiati: era un’aula aggiuntiva che nel corso del progetto subisce varie trasformazioni. Nella versione definitiva, testimoniata da un’assonometria (ma l’eliocopia è stata tratta rovescia!), da cubica assume una forma a ventaglio, alla Alvar Aalto se vogliamo, sollevata da terra. Sull’edificio gotico si vede un accenno di come furono modulate le finestre con dei cassoni sporgenti; l’edificio viene liberato dalla parte inferiore e appoggiato su pilastri ottagonali fatti con conci di pietra d’Istria.

Questa prospettiva fu disegnata a Vicenza poco prima di avviarsi verso Venezia, nelle prime ore antelucane quando, come direbbe Paul Valéry, «anche Venere è trasformata in documento»; serviva a presentare al committente la prima ipotesi di progetto. C’era Bepi Mazzariol che ci aspettava con il preside Treves e altri, naturalmente noi arrivammo con un’ora di ritardo con i disegni fatti la sera stessa. Al di là di questi aneddoti, è interessante la scelta di Scarpa di far vedere la sacrestia, il corpo esterno della navata della chiesa, l’abside e il campanile, uniche parti originali, come se fossero dietro a un muro di cinta. Questa idea del silos libri [al centro del disegno] salvava la parte più importante e ne permetteva una visione non tanto lontana da quella che poteva essere stata storicamente. Siamo nel controcampo rispetto all’ingresso da campo San Sebastiano e questa è la pensilina adiacente all’aula polifunzionale [a destra]. Il disegno è molto bello, tracciato da Scarpa sulla carta da schizzi gialla di Louis Kahn: è fatto a carboncino e con matite gessose e in misura minore con pastelli colorati; è firmato ed è uno dei suoi disegni più famosi. Probabilmente nel tempo ha subito un certo impoverimento, o perché è stato esposto alla mostra delle Gallerie dell’Accademia dove i fogli erano compressi fra due strati di metacrilato, oppure per il naturale decadimento della materia, per quanto il disegno fosse stato fissato.

Il progetto meriterebbe di essere studiato nelle sue varie fasi perché fu molto sofferto, l’esperienza mi dovrebbe insegnare a non accettare più lavori intitolati a santi martirizzati… Le complicazioni cominciarono con Scarpa in vita e proseguirono dopo la sua morte. L’unica cosa che fu realizzata ma che non so se sarà mantenuta tale e quale è il portale. Con una Rolleiflex scattai piccole fotografie in formato 6 x 6 che testimoniano lo stato della facciata prima che Scarpa intervenisse: c’era una la facciata fasulla che si appoggiava alla chiesa di San Sebastiano con una misera zoccolatura in lastrine di pietra d’Istria; l’unica cosa significativa, a parte la presunta unicità delle cornici delle finestre, era l’edicola del santo martire. […] Scarpa decise di modificare la facciata che gli era «odiosa», un termine che adoperava per indicare qualcosa di insopportabilmente falso, e di disegnare una targa. Alcune prove vennero fatte su copie fotostatiche, xerocopie su cui a Scarpa piaceva lavorare. L’idea iniziale fu quella di fare una grande piastra come al negozio Gavina, che cominciò a collidere con la forometria presente, le due finestre dell’abitazione del custode; la porta doveva essere mantenuta nella sua posizione.

Un po’ come per la Facoltà di Architettura di Venezia, ci sono almeno tre o quattro progetti del portale di San Sebastiano. Quello realizzato è il secondo di cui avevamo faticosamente ottenuto l’approvazione della commissione di salvaguardia. Successivamente Scarpa si pentì di questa scelta che non lo soddisfaceva più e lavorò a delle varianti in cui si salvava una finestra verso il canale e si riduceva il numero di quelle transennate. In ogni modo, l’idea è molto semplice: una piastra con un’apertura semicircolare, un colpo di compasso in cui viene inserita l’edicola del santo, delle lastre in pietra d’Istria traforate in corrispondenza delle finestre di cui viene smantellato il coronamento, un portale con una serie di cornici cin sagome apparentemente “brionesche”. Si tratta di una sorta di porta gemina il cui varco di sinistra è murato da un piastra in scorza di pietra d’Istria; su di essa, come al negozio Olivetti, fu inserita una targa in bronzo con lettere di piombo con il nome della Facoltà. La lastra di pietra grezza nasconde una porta scorrevole in metallo, vetro e legno, che disegnai dopo la scomparsa del professore e da cui si sarebbero visti i due cortili successivi. Il portale presenta delle modanature a dentelli ma di forma diversa da quelli di Brion; quelli di San Sebastiano ricordano di più la Banca Popolare; qui le gradonature non sono a 45 gradi (come invece a Brion, dove i dentelli sono come una scala che si può percorrere in un senso o nell’altro indifferentemente) ma a 30-60 gradi, con un’alzata pari a circa la metà della pedata, per cui il risultato formale e simbolico è completamente diverso. La placca in pietra è scostata dalla facciata dello Scarpagnino che fu considerata l’unica cosa originale e meritevole di essere conservata.

Morto Scarpa, fui incaricato di realizzare questo secondo progetto perché l’Università non se la sentì di mandare avanti il terzo che Scarpa non aveva fatto in tempo a presentare per essere approvato. È successa un po’ la stessa che cosa che per lo IUAV di cui esisteva un terzo progetto, più giusto, ma fu invece realizzato il secondo, di fatto un work in progress. Per San Sebastiano fummo accusati ferocemente dal mai sopito architetto Leomberto Dalla Toffola di aver distrutto una facciata originale; al Correr trovai dei documenti in cui si dimostrava che quella facciata, in quella forma, cinquant’anni prima non esisteva e svillaneggiai i detrattori. A Ferragosto del 1979 uscì un articolo violentissimo di un Vittorio Sgarbi allora esordiente, I difficili restauri a Venezia. Gli risposi in forma privata dimostrandogli che la facciata era fasulla.

O.L. Secondo te, quale sarà il destino delle opere di Carlo Scarpa?

G.P. È difficile rispondere, sono opere talmente fragili: il colore di un intonaco può virare, certe volte può essere rifatto ma non con la stessa qualità di allora. Nel dicembre del 1978, un mese dopo la morte di Scarpa, mi capitò di andare a Palermo con Tobia e con Philippe Duboÿ e restammo allibiti di fronte allo stato di conservazione di Palazzo Abatellis: la parete dietro al busto del Laurana era stata ridipinta in Ducotone verde, basta questo a compromettere un allestimento eccellente. Il brutto è che chi non ha mai vista prima quella parete la apprezza lo stesso, per cui si rischia di conservare un falso. Le opere di Scarpa, come di qualunque architetto, sono come dei figli, hanno una vita autonoma da chi le ha create e se incontreranno persone amorevoli che le sapranno conservare si conserveranno, altrimenti moriranno; è anche una prova del livello culturale che una società riesce a esprimere. È difficile capire quanto un’opera, anche se mortificata, riesca ancora a trasferire la qualità originaria. Parlando del negozio Olivetti, ricordo di ave