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Videointervista

Sergio Los
collaboratore

luogo: Treviso, Centro Carlo Scarpa
data: 15 maggio 2009
intervista di: Vitale Zanchettin
durata: 01:42:27

biografie: Sergio Los, Vitale Zanchettin

Vitale Zanchettin [V.Z.] Potrebbe raccontare in breve come e quando ha conosciuto Carlo Scarpa e perché ha deciso di collaborare con lui?

Sergio Los [S.L.] Carlo Scarpa era professore allo IUAV, era molto poco visibile, insegnava Disegno in un corso opzionale collegato all’esame di Geometria descrittiva. Io lo conoscevo perché quando ho deciso di fare Architettura ero innamorato di Frank Lloyd Wright, e la persona più vicina a Wright in quegli anni era proprio Scarpa. Scelsi di fare quel corso opzionale con Carlo Scarpa anche perché sapevo che aveva i disegni di Frank Lloyd Wright del famoso Masieri Memorial, era un modo per avvicinare Wright. Quando poi ho cominciato a parlare con Scarpa, ho capito che il disegno per lui era molto più di una semplice rappresentazione dell’edificio, era un modo di pensare. È quello che, più o meno per istinto, in seguito mi ha spinto a fare il suo corso di Architettura degli interni e successivamente a chiedergli di lavorare nel suo studio.

 

V.Z. Potrebbe spiegarci come era arrivato a Frank Lloyd Wright fin dal liceo? Quanti anni aveva e a che punto della sua formazione arrivò a Scarpa?

S.L. Ho cominciato ad appassionarmi all’architettura poco dopo aver iniziato il liceo. Come quasi tutti i bambini, da piccolo pensavo di fare l’aviatore. Al liceo ho capito di voler fare un’attività artistica; ho trovato delle fotografie e dei disegni di Frank Lloyd Wright e mi sembravano particolarmente attraenti. Mi piaceva soprattutto quello strano modo che ha Wright di mettere insieme, di trattare il terreno, l’agricoltura e l’architettura. Io sono nato a Marostica, una città murata, e ho passato gli anni della mia fanciullezza girando per la collina del Castello e per altri colli intorno dove incontravo continuamente muri di sostegno del terreno e mura antiche: questa combinazione di murature a metà fra l’agricoltura e l’architettura è stata la ragione che mi ha spinto verso Frank Lloyd Wright. Wright non disegnava scatole bianche, come la gran parte degli architetti in quegli anni, disegnava proprio questi muri, questi tetti, queste opere che combinavano il mestiere dell’agricoltore e quello dell’architetto. Io ero particolarmente attratto da questo costruttore-contadino.

 

V.Z. Scarpa risponde bene a questo suo bisogno?

S.L. All’inizio per me Carlo Scarpa era la persona più vicina a Frank Lloyd Wright, non avendo io i mezzi per andare in America. Oltretutto nel 1959 è morto e io ero andato a Venezia a studiare architettura solo pochi anni prima. Quindi in Scarpa cercavo la stessa integrazione fra architettura e ambiente che ammiravo in Wright. In Scarpa, come in Louis Kahn, è integrazione fra architettura e ambiente costruito, fra architettura e città storica; mentre l’architettura di Wright è sempre tutt’uno con il paesaggio, il quale, anche quando non lo è, viene immaginato come un paesaggio naturale, preumano, vergine, da Sagra della primavera, per intenderci.

 

V.Z. Per quanto tempo, dopo la laurea, ha lavorato con Scarpa?

S.L. Mi sono laureato nel 1963, non con Carlo Scarpa tra l’altro, poi ho cominciato a lavorare con lui dal gennaio del 1964 fino al 1971. Naturalmente portavo avanti anche la mia professione in maniera autonoma, per esempio nel 1964 ho costruito per conto mio una scuola a Tarvisio. Però l’insegnamento di Scarpa è stato molto importante. Il primo lavoro che ho seguito quando sono arrivato nel suo studio è stato il progetto del teatro Carlo Felice di Genova, che era a uno stadio ancora piuttosto informale.

 

V.Z. Pur essendo arrivato immediatamente dopo, sa qualcosa della prima fase di questo incarico?

S.L. Da quanto so a Genova c’era l’ingegner Ferrari (era assessore, mi pare ai lavori pubblici), il quale era interessato a far fare il teatro Carlo Felice a Scarpa. A Genova avevano avuto altri architetti importanti, come Franco Albini che aveva fatto Palazzo Rosso e altri restauri museali, e volevano che il teatro fosse un’opera, appunto, di Carlo Scarpa. Subito dopo la fine della guerra, per il Carlo Felice erano stati proposti altri progetti, dei quali però Scarpa non tenne conto perché si ponevano in sostituzione al teatro del Barabino. Per Scarpa invece la riprogettazione del Teatro partiva da una lettura del progetto originale di Barabino, vi si inseriva criticamente. Questo testimonia della personalità di Scarpa, la cui capacità di leggere il linguaggio figurativo lo portava sempre a inserirsi in altre opere non solo architettoniche ma anche di scultura, pittura, espositive e di altro genere artistico.

 

V.Z. Quindi possiamo dire che molto probabilmente Scarpa influì parecchio sulla scelta di non partire da zero, ma di confrontarsi con quanto rimaneva dell’edificio del Barbino.

S.L. Carlo Scarpa era contrario all’avanguardismo modernista, lo era quasi fisicamente, non solo culturalmente. Non era un rivoluzionario, voleva stare sì nel suo tempo ma con una nuova capacità di leggere le architetture della storia, non di rompere con esse per aprire una nuova epoca. Non riprese i progetti di rifacimento del Carlo Felice esistenti perché erano contrari a questo suo modo di comportarsi, che credo sia una delle caratteristiche più importanti di Carlo Scarpa.

 

V.Z. C’era chi sosteneva il progetto e chi ne era in qualche modo nemico? Ci furono divergenze che condizionarono l’evoluzione del progetto?

S.L. All’interno del gruppo di lavoro, che non aveva scelto Scarpa, c’erano alcune persone con le quali non andava assolutamente d’accordo. Soprattutto l’ingegner Marcello Zavelani Rossi di Milano, che era stato chiamato a Genova come specialista avendo realizzato il palcoscenico e le macchine sceniche del Teatro Regio di Torino. Però a Carlo Scarpa non andava a genio, prima di tutto perché aveva un’educazione completamente diversa dalla propria, e poi perché non gli piaceva il tono con cui imponeva le sue decisioni. Questo fece sì che Scarpa, fin dai primi disegni, avesse tracciato una specie di linea di confine: «Fin qua sono io che decido, da qua in là decide questo ingegnere di Milano». Nella percezione di Scarpa Zavelani Rossi andava oltre il suo compito, cioè il progetto delle macchine sceniche, e occupava il suo spazio, soprattutto nel disegno della torre scenica e di tutta la parte che girava intorno al palcoscenico, che era un’architettura della città. Invece andava molto d’accordo con un professore di Scienze delle costruzioni che insegnava a Genova, il professor Luigi Croce. Carlo Scarpa fu sostenuto da Ferrari, con il quale avevamo avuto incontri, cene e che dava il suo appoggio “culturale” alla presenza di Scarpa a Genova. Fu sostenuto anche dal professor Croce, che aveva moltissima stima di lui, ma lo fu meno da Zavelani Rossi, il quale si preoccupava molto di più delle sue macchine e della sua autonomia che non della presenza di Scarpa. Dopo qualche dubbio iniziale dovuto alla sua scarsa conoscenza di Scarpa, fu sostenuto anche dalla sovrintendente Marcenaro che si dimostrò molto vicina alle modalità con cui Scarpa affrontava i problemi del teatro.

Poi, siccome la vicenda andò avanti abbastanza a lungo, l’amministrazione comunale cambiò e l’incarico andò modificandosi fino a che decisero di fare un appalto concorso con progettisti interni alle imprese di costruzione. A quel punto Scarpa non c’era già più. Comunque nel progetto di Ignazio Gardella, Aldo Rossi e Fabio Reinhart sono riprese alcune delle sue idee, soprattutto per quanto riguarda l’inserimento del teatro nel sistema di circolazione cittadino. A scuola ho presentato tante volte il Carlo Felice come un progetto di architettura della città: Carlo Scarpa viene sempre considerato un architetto di interni, mentre invece nel teatro di Genova e in altre sue opere – la Banca Popolare di Verona o il negozio Gavina, dove la facciata è fondamentale per capire il senso dell’intervento – Scarpa tiene in gran conto come funziona la città in quel punto. Il teatro realizza una connessione fra piazza De Ferrari e la galleria Mazzini; e anche la parte anteriore, dove la città ha una vita molto speciale, è resa più comprensibile, per certi versi, nel progetto di Scarpa.

 

V.Z. Sul tema della città proveremo a concludere. Ora, prima di passare ai disegni, tornerei un attimo alla questione del rapporto tra Scarpa e Zavelani Rossi. Ritiene che le incomprensioni fossero dettate da un problema architettonico o da un problema personale?

S.L. Era un problema architettonicamente personale, per usare un gioco di parole. Nell’architettura di Scarpa la sua presenza, la sua sensibilità, è incredibilmente incorporata al disegno, quindi è difficile separare le due cose. Zavelani Rossi lo sentiva istintivamente lontano, quasi un avversario, per un fenomeno di attrazione-repulsione naturale e immediato. L’architettura è fatta anche di queste cose, di relazioni interpersonali che per Scarpa contavano moltissimo. Infatti, quando raccontavo in giro che lavoravo con lui mi dicevano che ero matto, tante persone che erano state maltrattate da lui perché erano state maleducate o perché non gli andavano a genio mi dicevano «Vedrai cosa ti succede!». Ma io mi sono trovato sempre molto bene. Scarpa da un lato era un intellettuale – raramente ho incontrato persone della sua cultura, sia letteraria che figurativa, e capaci come lui di trasferirla nei progetti – e dall’altro aveva una personalità molto presente. Zavelani Rossi era un’altra presenza, e Scarpa sentì il bisogno di fissare un confine. D’altra parte, per presentare i disegni Zavelani Rossi non poteva fare da solo, non poteva disegnare lui le pareti della zona con il palcoscenico, la scuola di danza, i camerini, i grandi portali per fare entrare il cubo scenico. Era una macchina molto ingombrante dal punto di vista dell’architettura, però Scarpa la progettò. Lo abbiamo visto prima, in quel disegno preparatorio su cui Scarpa traccerà a mano delle prospettive.

 

V.Z. Allora passiamo ai disegni, così questa linea di confine possiamo vederla concretamente. Altre volte abbiamo osservato l’evoluzione dei progetti di Scarpa cercando di riconoscere dei modi ricorrenti. Potrebbe riassumerli rispetto al progetto del Carlo Felice?

S.L. Sì, il progetto del Carlo Felice è abbastanza tipico in questo senso. Il disegno di Carlo Scarpa diventa comprensibile se lo consideriamo, come credo si debba fare, come uno strumento per riflettere. È un modo di pensare non per parole ma per figure, che Scarpa utilizzava per affrontare il progetto. Ogni disegno ha una sua temporalità e un suo contesto spaziale: una parte del disegno, di durata molto lunga e grande stabilità, era tracciata su un cartone incollato a una tavola di legno; poi c’erano i disegni su cartone come questo [indica il foglio davanti a sé], che avevano un tempo di riflessione un po’ meno lungo, e infine i disegni fatti su carta trasparente, della massima velocità e molto mutevoli.

 

V.Z. Cominciamo…

S.L. Questo è il cartone che s’incollava bagnandolo È in foglio ma poteva essere anche in rotolo. La cartiera si chiamava Schöller e il tipo di cartone Hammer. Stavamo dicendo?

 

V.Z. Se potesse riassumere prima le tappe più usuali del modo di progettare, di pensare disegnando, di Carlo Scarpa, e poi le tappe fondamentali del progetto del Carlo Felice.

S.L. Quando sono arrivato nello studio di Carlo Scarpa, dopo averlo frequentato da studente e aver sentito le sue lezioni, mi son trovato di fronte al suo modo di lavorare, una scoperta particolarmente interessante. Non si trattava di una semplice pratica, come tante altre; rifletteva il suo essere progettista, il suo pensare per figure. Usava il disegno come un linguaggio, con determinati referenti. Inoltre il disegno gli consentiva di conoscere, non tanto l’edificio che stava progettando, ma il luogo in cui sorgeva, le istituzioni a cui era destinato, le consuetudini o i comportamenti di coloro che lo avrebbero abitato. Usava l’architettura non come scopo finale del progetto ma come strumento di conoscenza. Fu questo a colpirmi maggiormente del lavoro di studio di Scarpa, tanto che nel 1967 volli anche spiegarlo in un libro.

Il disegno si attuava attraverso tre passaggi principali, ognuno con una diversa temporalità. Innanzitutto c’era il rilievo del contesto in cui s’inseriva il progetto. Nel caso del Teatro di Genova: piazza De Ferrari, la Galleria Mazzini e il progetto del Barabino, con tutti gli assi e gli elementi su cui incardinare il progetto. Questo, che era il disegno di maggior durata e conteneva tutte le misure di riferimento, perché non mutasse per via dell’umidità o di altri fattori, veniva disegnato su un cartone e incollato su una tavola di legno, in modo che rimanesse assolutamente fermo. Con questo disegno si costruiva la geometria del contesto, resa a squadra e compasso, a cui poi venivano riferiti tutti gli studi effettuati durante lo svolgimento del progetto. Sulla tavola generale gli assi erano riportati in rosso, il resto del disegno veniva disegnato con china diluita con acqua distillata in modo da sembrare un segno di matita, meno invasivo del nero della china.

Scarpa iniziava poi col selezionare alcuni problemi, alcuni aspetti tematici del progetto, che venivano estratti dalla tavola generale e riportati su un cartone. I cartoni ocra o color camoscio in formato elefante (cioè 1 metro per 70 centimetri), che lui ha sempre utilizzato, servivano quasi sempre a riportare il tema progettuale a un’altra scala, a volte anche in scala 1:30, 1:25, 1:250. Scarpa aveva diversi scalimetri perché riteneva che una certa scala fosse fondamentale per risolvere un particolare problema. Su questi cartoni venivano sempre usati anche i colori.

A questi cartoni di supporto alle riflessioni su un determinato problema venivano sovrapposte delle carte leggere, trasparenti, che riportavano le possibili soluzioni. Ne esistevano serie lunghissime per ogni tema, 10, 15, 20… a seconda del caso. Erano in sequenza fino alla soluzione che si riteneva accettabile che, se stabilizzata, veniva poi riportata sul disegno generale.

Naturalmente il progetto veniva alimentato da una riflessione quotidiana che impegnava Scarpa a tempo pieno, per cui disegnava su tutto quello che gli capitava: pacchetti di sigarette, carta intestata dell’università, pezzi di giornale, salviette del bar o menu di ristoranti. Per essere trattenute, queste idee estemporanee ma continuative venivano riportate nei rispettivi disegni in studio. La riflessione era quindi organizzata come oggi si fa al computer: a un layer generale si sovrapponevano una serie di temi estratti, isolati in modo che ognuno potesse essere lavorato alla giusta scala, e una sequenza di soluzioni. Con questo non voglio dire che quel tipo di procedimento si potrebbe riprodurre interamente con un computer, perché la materialità dei supporti, che per Scarpa aveva un’importanza centrale, non è riproducibile con i sistemi informatici.

A volte, lavorando ai temi estratti sulle carte trasparenti, capitava di dire «non si riesce a trovare una soluzione», allora lui diceva: «se fai fatica a trovare la soluzione, prendi il cartone e lo metti da una parte, vuol dire che questo problema bisognerà risolverlo in un altro momento». Lasciava un tema in sospeso perché – diceva – «vuol dire che gli altri temi intorno a questo non sono ancora stati risolti e che questo potrà essere risolto soltanto dopo che avremo chiarito i punti intorno», ad esempio una scala, il rapporto con un edificio vicino, l’entrata, una galleria che collegava parti diverse della città.

Lo si vede bene anche nel progetto del Carlo Felice. Adesso non sono in grado di fissare la data dell’incarico, ma avvenne fra il 1962 e il 1963. Scarpa era ad Asolo, ho visto delle sue riflessioni sul Carlo Felice nell’altra casa di Asolo, prima che si trasferisse in via Robert Browning, nella casa dove c’è la fontanina, davanti al portico… Quando sono arrivato nel suo studio c’erano già degli schizzi preliminari tracciati su dei supporti occasionali come possono essere le copie eliografiche che gli erano state date dall’amministrazione comunale di Genova, dall’ingegner Ferrari penso.

Poi cominciò a ragionare in pianta e sezione insieme (come Frank Lloyd Wright e altri architetti) in modo da avere sempre presente una vista dello spazio dall’alto e di fianco e una serie di corrispondenze fra ciò che accade in pianta e in sezione e viceversa. Questo lavoro rappresentava una risposta a caldo ai primi colloqui che aveva avuto con l’ingegner Ferrari e ai primi sopralluoghi fatti sull’area di Genova. Era un’area importante perché in piazza De Ferrari c’è l’Accademia di belle arti, la Galleria Mazzini è un luogo pieno di vita; il teatro quindi mediava tra questi due luoghi importanti di Genova e creava un passaggio pubblico, un collegamento che è anche un pezzo di città.

Credo che sia utile distinguere il lavoro del teatro di Genova in fasi: la prima la caratterizzerei con gli incontri preliminari con l’amministrazione comunale e con delle prime riflessioni che ritroviamo fissate nelle idee portanti del progetto, come il fatto che non dovesse essere un teatro all’italiana a palchi ma un’unica grande platea contornata da un loggione che faceva il verso al vecchio loggione soprastante i palchi e che ora veniva collegato direttamente alla platea. Questa sua prima idea si svilupperà in vari modi ma resterà sempre.

A un certo punto, quando il progetto cominciò a “consolidarsi”, tracciammo un disegno su un cartone bianco sottile (che andrebbe cercato) che venne bagnato e incollato con colla di farina fatta in casa su una tavola di legno spessa 2 centimetri. Su questo cartone, che diventa teso come una pelle di tamburo, è bellissimo disegnare e vi è riportato il sistema di assi e quanto occorre del contesto per andare avanti con il lavoro. Serve anche per riportare il progetto a mano a mano che procede. Dal momento in cui viene incollato questo cartone sulla tavola e si estraggono i temi specifici su altri cartoni, il lavoro si svolge più sistematicamente: è il periodo in cui arrivai io, all’inizio del 1964. A gennaio l’ingegner Ferrari disse che entro l’autunno bisognava portare a Genova una proposta, quindi io fui incaricato di controllare le quote, le scale, le corrispondenze fra interno ed esterno, cioè la coerenza interna del progetto. A questa fase appartengono molti disegni che riguardano la sala principale, i foyers, il collegamento fra la Galleria Mazzini e piazza De Ferrari, la biglietteria all’entrata e la sala piccola al piano inferiore.

Contemporaneamente andava avanti l’ingegner Zavelani Rossi, che ogni tanto mandava delle copie eliografiche che Scarpa pativa moltissimo: in generale non sopportava le copie eliografiche, e poi questi erano grandi pacchi di disegni ingegneristici di fronte ai quali diceva: «Guardateli tu, perché io non riesco a sopportarli». Bisognava raccordare le quote della parte del proscenio [curata dall’ingegnere] con quelle della sala a cui stavamo lavorando noi.

Si potrebbe dire che per Scarpa un progetto è sempre già iniziato e mai finito. Quando c’è una scadenza, per lui è una sofferenza perché presuppone fermare il progetto per rappresentarlo in bella copia. Poco prima della presentazione del progetto, verso la fine dell’estate, Scarpa si trovò a dover passare su lucido tutte le proposte che aveva elaborato. Si fece “prestare” dei disegnatori da studi di amici, come l’architetto Davanzo, forse anche l’architetto Gemin, che venivano ad Asolo a trasferire sui lucidi i disegni di Scarpa. Andammo a Genova dove naturalmente ci furono riunioni con il Comune e con l’Ufficio tecnico a cui parteciparono il professor Croce e l’ingegner Zavelani Rossi. C’era anche l’ingegner Bertolini di Milano che si occupava dell’impiantistica, era stato coinvolto dall’amministrazione comunale, con lui non ci furono problemi come con Zavelani Rossi. Ci furono anche degli incontri con la Sovrintendenza da cui emersero una serie di suggerimenti. Di ritorno da Genova ci fermammo a Verona dove alla fine del 1964 ci sarebbe stata l’inaugurazione di Castelvecchio. A questa fase che preludeva all’inaugurazione del museo partecipai anch’io. Poi siamo tornati in studio a Asolo e abbiamo ripreso a lavorare. C’erano di mezzo anche altri lavori, come il padiglione centrale della Biennale di Venezia e la casa Zentner di Zurigo, comunque fu un momento di ripensamento del progetto che ora doveva rispondere alle osservazioni fatte a Genova. Tra queste c’era l’ingrandimento della sala sottostante, alla quale si accedeva direttamente dalla galleria che univa piazza De Ferrari con la Galleria Mazzini. Scarpa è sempre stato sensibile ai problemi costruttivi e impiantistici, avrebbe affrontato allo stesso modo anche le questioni della macchina teatrale del palcoscenico se non si fosse scontrato con una persona dal carattere così diverso dal suo.

Durante l’ultima fase, dopo la correzione dei disegni successiva agli incontri genovesi dell’autunno 1964, ho passato dei periodi a Genova in un ufficio del Comune. Sto parlando dell’anno 1965. Dopodiché, anche per via del cambio d’amministrazione, la progettazione rallentò, divenne più episodica, frammentata. Ci fu un momento di stallo perché sotto la parte del palcoscenico avevano trovato delle gallerie che richiesero una serie di rilievi approfonditi. Dopo il Comune ha deciso di seguire un’altra procedura, ha fatto un appalto concorso vinto da Gardella, Rossi e Reinahrt, che hanno realizzato comunque un progetto molto interessante, anche se diverso da quello di Carlo Scarpa, perché quella che per Carlo Scarpa doveva essere una platea teatrale, nel progetto di Rossi è una specie di “piazza” con tanto di prospetti laterali. Di vicino a Scarpa c’è l’idea della sala unica con un loggione in alto.

 

V.Z. Lei ha seguito il lavoro di Scarpa per un lungo arco di tempo. Ritiene che negli ultimi anni sia cambiato qualcosa nel suo modo di lavorare?

S.L. Secondo me no. Come ho detto, la cosa che a me sembra più rilevante in Carlo Scarpa è questa sua pratica del pensare per figure. È anche la ragione per cui si è sempre occupato di allestimenti museali ed esposizioni temporanee (le Biennali, presentazioni di altri artisti, ecc.). A scuola, per spiegare la sua architettura, facevo una distinzione fra l’«opera rete» e l’«opera oggetto». L’estetica muove principalmente verso l’«opera oggetto»; gran parte delle architetture del Movimento moderno vengono presentate come oggetti isolati, penso a come venivano spiegati il Bauhaus, opere come la Ville Savoye o altre case degli anni Venti di Le Corbusier, concentrando l’attenzione sull’opera e trascurando la relazione con il contesto.

Il mio interesse per Carlo Scarpa, che poi ho assorbito nel mio lavoro, nasce invece dal leggere le sue come «opere rete», nel senso che il suo intervento a Verona, ad esempio, serve a migliorare la leggibilità di Castelvecchio e contemporaneamente a migliorare la leggibilità delle sculture o dei quadri che contiene. Con la sua architettura Scarpa rende più eloquenti le opere d’arte, le sculture di Canova a Possagno per esempio. Come ho detto tante volte, a Possagno la sua è un’architettura critica. Invece di fare critica scrivendo, lui fa critica costruendo un edificio che mette in luce, anche in senso letterale, la qualità delle opere di Canova. Penso ad esempio alla scelta di fare le pareti bianche, e non scure come gli era stato suggerito, per far risaltare le sculture in gesso che vi sono esposte, o all’idea di mettere le finestre a triedro per avere sempre una sorgente luminosa perpendicolare alla parete e non tenere niente in ombra: c’è sempre una luce bianca diffusa che esalta moltissimo il valore plastico delle sculture di Canova. Se ci fossero stati dei fondi scuri, pareti colorate oppure in ombra, avremmo visto soltanto la sagoma delle sculture, il contrasto fra la silhouette e il fondo. Invece Scarpa, nel suo modo critico di presentare le sculture di Canova, non crea mai un contrasto fra figure e sfondo, semmai rende ed esalta la plasticità dei modellati di Canova. Per esempio delle Grazie, dietro alle quali mette una finestra d’angolo e fuori, a sud, una vasca d’acqua. Così i raggi del sole cadono sulla vasca e vengono riflessi sulla scultura e, siccome l’acqua è tremolante, non manda una luce ferma sul corpo delle Grazie ma una luce screziata e mobile che rende quasi un effetto di danza. Questo è un modo critico di presentare le sculture, è come un commento scritto ma Scarpa lo fa costruito.

Anche Castelvecchio è un’opera relazionale: restauro un edificio per rendere ancora più eloquente l’edificio stesso; restauro un edificio che sta in una città per rendere ancora più leggibili quella parte di città e le sue relazioni; e all’interno dell’edificio rendo più eloquenti le sculture con il mio allestimento e la luce con cui le presento.

Questo concetto di «opera rete» nel caso di Scarpa mi pare particolarmente illuminante; secondo me lui arriva facilmente all’«opera rete» per la conoscenza e per la capacità che ha di parlare (nel senso di progettare e costruire) la lingua figurativa di chi modella sculture, di chi dipinge quadri o di chi ha costruito architetture precedenti nelle quali lui entra sempre nel modo più rispondente. Pensa al negozio Olivetti in piazza San Marco: come si fa a fare un negozio moderno (perché il suo non è sicuramente mimetico)? come fa Scarpa a entrare e a migliorare il portico su piazza San Marco? È possibile migliorare la leggibilità di piazza San Marco con un’opera moderna? Scarpa lo fa. Nel mio libro avevo cercato di dare una spiegazione. Secondo me, l’architettura di Scarpa, un po’ come l’architettura antica a cui lui ha sempre detto di riferirsi, è un’architettura in cui le parti sono più importanti dell’intero. In piazza San Marco il volume delle Procuratie è meno rilevante degli ordini di Scamozzi, delle colonne, delle trabeazioni o delle finestre. Mentre invece un qualsiasi altro edificio moderno, anche molto accurato nei dettagli come il Seagram Building di Mies per esempio, resta più importante dei sui dettagli. In Carlo Scarpa c’è una scomposizione delle parti e queste parti, anche se moderne, sono più importanti dell’insieme. Prendi il negozio Olivetti, la porta, l’entrata con la scultura di Viani, la scala, sono tutti elementi singolarmente più rilevanti dell’insieme. E questo spiega perché lui, sia pure con elementi moderni, riesca a dialogare con la scala differente dell’architettura antica senza riprendere da essa neanche una figura, però traendone la stessa scomposizione in parti.

 

V.Z. Cronologicamente il progetto del teatro di Vicenza è compreso nel lungo arco di elaborazione del Carlo Felice. Però la proposta per Vicenza ha una gestazione molto breve. Ritiene che ci siano dei punti comuni tra i due progetti?

S.L. Secondo me sì. Per esempio il teatro di Genova ha sempre giocato sull’idea della grande sala impostata su due cerchi (uno per la parte bassa vicina al proscenio e uno sopra): li si vedono in tanti disegni e fanno pensare a quel suo tema ricorrente, la cosiddetta vescica piscis che troviamo in tante variazioni. Nel caso del teatro di Vicenza lo vediamo nella parte circolare più bassa, rotante intorno al suo diametro e parallela alla linea di proscenio; è uno dei temi interessanti del progetto e deriva dalle sue riflessioni sulla sala di Genova.

Mi spiego meno, invece, la strana copertura del teatro di Vicenza, che credo fosse stata un’invenzione molto veloce: a un certo punto bisognava consegnare, e Scarpa con le consegne ha sempre avuto dei problemi. Un progetto bellissimo che Scarpa avrebbe potuto realizzare se fosse riuscito a consegnare in tempo era quello del villaggio Olivetti che poi fece l’architetto Fiori. Penso che anche per la consegna del progetto per Vicenza ci fossero stati dei problemi risolti molto, molto velocemente. Nel teatro di Vicenza la riflessione principale, che anche per me è la più interessante, riguarda la sala. A Genova Scarpa aveva il problema di garantire una capienza di 1800 posti: per farli stare tutti ha fatto questi cerchietti, ha misurato in tutti i modi per farceli entrare e soprattutto renderli architettonicamente congruenti. Questo ricordo vale anche per il teatro sottostante, quello più piccolo, il numero dei posti era anche lì molto problematico. D’altra parte erano richieste che venivano direttamente dall’Amministrazione comunale.

 

V.Z. Per curiosità, questi cartoncini che venivano incollati sulla tavola di legno, poi si riusciva a toglierli senza rovinarli?

 

S.L Scarpa non aveva, per i suoi disegni, la venerazione che abbiamo noi oggi. Quindi non gli interessava molto di cosa sarebbe successo al disegno incollato. Molti dei disegni di Scarpa sono andati persi, moltissimi li lasciava agli artigiani per la realizzazione dei lavori. Poi, quando hanno capito che i disegni di Scarpa avevano un valore oltre a quello affettivo, a maggior ragione se li sono tenuti. Ma per lui il disegno doveva servire per arrivare al progetto, tante volte l’ho sentito dire che a lui interessava soprattutto risolvere i problemi dell’architettura. La riflessione maturava sui disegni e proseguiva in cantiere, per questo ha sempre arricchito moltissimo il pensiero che aveva sviluppato nel disegno direttamente in cantiere, nel corso della realizzazione. Considerava anche la costruzione una fase della riflessione figurativa, da fare in scala 1:1 e con gli artigiani.

 

V.Z. Rispetto al contesto urbano dei due teatri di Genova e Vicenza, le pare che le soluzioni (soprattutto gli alzati) elaborate, per quanto possiamo capire dai disegni, siano adeguate? O lasciano dei problemi aperti?

S.L. Come ho detto, ritengo che uno dei maggiori contributi offerto da Scarpa sia la sua capacità di progettare edifici rispondenti al contesto, e in particolare al contesto più difficile da affrontare per i moderni che è quello urbano, storico-monumentale.

Il contesto del teatro di Genova era più problematico perché c’era l’edificio preesistente del Barabino che, essendo stato bombardato, doveva essere rifatto. Il teatro del Barabino non aveva un’attrezzatura scenica aggiornata come quella che ora i genovesi richiedevano, quindi non ci si poteva limitare a una semplice ricostruzione filologica. In questo senso Scarpa interviene con una bravura straordinaria: porta un progetto civico, un progetto che si inserisce benissimo nella città che lo chiede. Quindi risponde molto bene alle esigenze del contesto.

Nel caso di Vicenza il contesto, invece, era abbastanza semplice e non poneva particolari problemi. Era un giardino fra la città storica e la stazione ferroviaria; un contesto molto meno impegnativo che a Possagno, a Bologna o a Verona.

 

V.Z. Il teatro di Vicenza infatti è uno dei pochi progetti di Scarpa non vincolati da preesistenze. Non trova che sia uno dei rari casi in cui Scarpa si confronta con un vuoto, con una progettazione da zero? Lei come vede Scarpa in questa situazione, le sembra disinvolto come quando si muove tra le sale delle Gallerie dell’Accademia?

S.L. Il progetto vicentino ha relazioni con il contesto molto semplici, molto elementari per certi versi. Non è che sia sbagliato, ma l’interazione col contesto non è il tema principale di questo progetto. Qui vedo molto più interessante il tema della sala.

Come ho detto, per Carlo Scarpa è molto importante il rapporto con il contesto, anche quello climatico. Spesso presento casa Veritti come una casa solare perché ha una vetrata a due piani verso sud, una parete molto protettiva verso nord e l’acqua che riflette la radiazione solare. Scarpa era molto sensibile a questi “caratteri ambientali” e tante volte diceva che l’architettura non deve essere solamente visiva ma deve coinvolgere i suoni, gli odori, l’esperienza tattile. Scarpa concepiva l’architettura come multisensoriale.

È stato un grande insegnamento per me, difatti poi ho sviluppato queste tematiche, non tanto nel senso funzionale di ridurre il consumo di energia – che pure è importante – ma di offrire all’architettura una qualità spesso dimenticata per un’eccessiva e unilaterale accentuazione visiva.

 

V.Z. Torniamo alla funzione delle veline come supporto per le diverse soluzioni a un singolo problema.

In alcuni casi, osservando i disegni di Scarpa su carta in rotolo, potremmo ricostruirne alcune sequenze tenendo conto di come svolgesse i rotoli da destra verso sinistra e strappasse i pezzi progressivamente. In che tempi venivano realizzate queste sequenze?

S.L. Scarpa diceva spesso agli studenti che per progettare bisognava acquisire una certa velocità nel disegnare, perché altrimenti il disegno non riesce a star dietro al pensiero, all’intuizione. Diceva che, come per chi suona il pianoforte, anche l’architetto dovrebbe stare nulla dies sine linea, ogni giorno ci si dovrebbe esercitare nel disegno. Questo è reso molto bene dalle veline. I disegni sul cartone incollato o sui cartoni ocra venivano preparati da altri, poi lui ci sovrapponeva le veline su cui disegnava a mano. Rendevano molto bene quella velocità del pensare per figure che lui aveva, perché lui era veramente velocissimo nel disegnare.

Scarpa diceva che le idee vengono a tutti, anche a chi non è architetto. Però la cosa importante – e lo ripeteva spesso agli studenti – era: primo, riconoscere le potenzialità di un’idea per saperla “fermare”, secondo, avere la capacità di elaborare questa idea. Prima – diceva – ci vuole la capacità critica di riconoscere le idee architettonicamente interessanti, e poi ci vuole la capacità compositiva di elaborare queste idee per farle diventare architettura. Nell’insegnamento questo era molto evidente.

Mi sembra di poter dire che Scarpa viene considerato molto più spesso da un punto di vista estetico che non per la sua capacità di usare il disegno come uno strumento di conoscenza e per quanto è riuscito a comunicarci sia attraverso i disegni che attraverso le architetture. Invece credo sia proprio questo l’insegnamento maggiore che Scarpa ci ha lasciato. Diversamente da tanti altri architetti moderni seppur importantissimi, per i quali vale di più l’idea, nel caso di Scarpa l’architettura è effettivamente la cosa più rilevante.

 

[Da questo punto in poi S.L. illustra il progetto di Genova con specifico riferimento ai disegni; sono state mantenute solo le parti con contenuti nuovi rispetto alla prima parte dell’intervista].

S.L. [Dal punto di vista distributivo,] dati i limiti spaziali del teatro precedente, Scarpa affronta due problemi principali: quello delle scale di sicurezza, che dovevano essere obbligatoriamente un certo numero, di una certa larghezza ecc., e quello delle scale di collegamento tra i diversi foyers. Scarpa immaginava che uno andasse a teatro per assistere alle recite ma contemporaneamente per farsi vedere, per incontrare persone, quindi affrontò anche il tema di come il pubblico potesse mostrarsi; pensava al teatro come a un sistema che facilitasse le interazioni sociali, le pubbliche relazioni. Per questo alcuni ambienti erano disegnati come proscenio degli stessi spettatori, sia nella sala principale sia nel foyer che era su diversi piani e si poteva percorrere in entrambi i sensi. […] I vari passaggi erano interessanti perché davano sempre la possibilità di vedere sotto, di vedere le persone, di potersi in qualche modo richiamare all’interno del teatro. Sui disegni ci sono continui segnali dell’interesse di Scarpa per le relazioni tra le persone che avrebbero frequentato il teatro. […] Spesso Scarpa inventa anche dei modi molto particolari di muovere le porte, ci sarebbe un discorso sull’ architettura cinetica da fare, ma è poco studiata. Alcune di queste porte Io ho pubblicate in un articolo.

 

S.L. […] Una cosa che a Scarpa interessava ma che non sapeva fare personalmente, mentre era uno straordinario disegnatore, era costruire plastici di cartone o di balsa. Li facevo io, o altri collaboratori, perché a lui interessava lavorare sui plastici; avevamo un fotografo che faceva bellissime fotografie ai plastici, era Diego Birelli. I plastici e le fotografie servivano per lavorare non per mostrare il progetto al cliente, erano strumenti per sperimentare, per elaborare e verificare le idee progettuali.

 

[…] Nei disegni della parte con la scuola di danza e con questa specie di bow window aggettante ci sono una serie di elementi di architettura – l’attacco a terra, il coronamento, l’attico e il corpo intermedio – come succedeva nell’architettura classica. Nella sua modernità Scarpa non ha mai trasgredito questi principi per lui assolutamente fondamentali – basti pensare alla Banca Popolare di Verona – che sono poi la vita di un edificio che deve durare.

[…] Sugli elaborati del] porticato, come in tantissimi altri casi, si vedono disegni di persone che Scarpa faceva sempre per avere il senso della dimensione dell’edificio.

 

[L’uso di cerchi a due centri] è caratteristico del suo modo di procedere, nel senso che spesso Scarpa usa delle coppie. Per esempio, se deve sostenere una cosa, invece di mettere due appoggi e sostenerla direttamente, mette un appoggio eccentrico che la farebbe cascare e poi un secondo, diverso, per bilanciare lo scompenso prodotto dal primo. Lo si vede anche nell’ingresso dello IUAV che è sostenuto da una ruota eccentrica e quindi tenderebbe a cadere: c’è però una seconda ruota che scorre su una rotaia e che raddrizza la prima. Succede anche in tantissimi sostegni di opere d’arte: a Castelvecchio, alla Galleria di Palermo e in altri musei. Nella scala dello showroom Olivetti il gradino gira su un perno; poi Scarpa ci aggiunge una vite in modo da poterlo mettere in bolla. Il piano, cioè, non è orizzontale ma è regolabile, quindi riportabile alla perfetta orizzontalità, come uno strumento scientifico di misura; invece di appoggiarlo diritto come avrebbe fatto chiunque altro, Scarpa lo mette squilibrato e dopo inserisce qualcosa per fargli recuperare l’equilibrio e bilanciarlo. Secondo me questo suo lavorare sulle coppie e sullo “squilibrio equilibrato” è molto sottile, è un elemento molto importante nelle riflessioni di Scarpa e che trovi nella sua architettura ma anche nelle sue sculture, per esempio nell’Asta che ha vari tipi di equilibrio. È una “stabilità dinamica”, una stabilità che deve essere continuamente recuperata. In questo senso le vetrate smontabili del negozio Gavina di Bologna sono molto interessanti perché il vetro non è fisso come succederebbe normalmente, ha dei supporti con dei cilindri che vanno avanti e indietro e un feltro contro il quale si appoggia. Quindi metto il vetro, dopodiché regolo la giusta pressione e poi blocco la vite rendendo tutto smontabile. In tutti questi elementi che si ritrovano nei dettagli delle porte, nelle cerniere ecc. Scarpa lavora sempre con il criterio dello “sbilanciamento bilanciato”: è molto intrigante.