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Videointervista

Francesco e Paolo Zanon
esecutore

luogo: Venezia, Officina Zanon Gino di Paolo e Francesco Zanon
data: 22 marzo 2010
intervista di: Alba Di Lieto
durata: 1:28:28

biografie: Officina Laboratorio Zanon, Alba Di Lieto

Alba Di Lieto [A.D.L.] Può presentarsi e raccontare come ha conosciuto Carlo Scarpa?

Francesco Zanon [F.Z.] Mi chiamo Francesco Zanon e assieme a mio fratello Paolo porto avanti l’attività di nostro padre da oltre cinquantacinque anni. Ricordo di aver conosciuto il professor Scarpa quand’ero molto giovane, avevo circa 14-15 anni e avevo appena intrapreso l’attività a tempo pieno; lui poteva averne 48 o 49. Ricordo che durante il lavoro del negozio Olivetti il professore, che all’epoca abitava a Venezia, veniva spesso qui in officina a “prevedere” i lavori: era un lavoro molto complesso, molto difficoltoso da fare, e io lo vedevo che discuteva con mio padre e guardava… era molto attento. Quattro o cinque anni dopo ho avuto modo di conoscerlo più a fondo durante il lavoro della Querini Stampalia: mio padre aveva lasciato l’incarico a me e a mio fratello per farci imparare, quindi i nostri contatti col professore sono diventati molto più stretti. Dopo la Querini Stampalia, ho seguito il lavoro della casa Balboni, sempre in contatto diretto col professore; si andava in rio Marin, quando abitava ancora qua, o ad Asolo; in quest'ultimo caso andava mio fratello che aveva già la macchina. La collaborazione è sempre stata abbastanza stretta, a noi piaceva dialogare col professore, si imparava…

 

A.D.L. Avete fatto anche mostre con lui?

F.Z. Sì, ricordo in particolar modo un periodo nel quale il professore allestiva praticamente una mostra ogni anno: al Museo Correr, a Palazzo Ducale, alle Gallerie dell’Accademia, a Palazzo Grassi. Ogni volta il problema era che lui arrivava all’ultimo momento e ci faceva lavorare fino alle 11 di sera; per due-tre mesi all’anno sapevamo di dover lavorare fino a quell’ora perché si dovevano allestire le mostre in tempo. Per noi che eravamo giovani lavorare fino alle 11 di sera non era una cosa molto simpatica, però lo si faceva.

 

A.D.L. Avete lavorato anche alle Biennali?

F.Z. Ricordo che per il lavoro della XXXIV Biennale del 1968 avevamo comperato una macchina nuova, un seghetto non tanto grande che faceva un lavoro un po’ particolare: tagliava grossi pezzi di ferro, putrelle, cose abbastanza imponenti. Un giorno il professore ci chiese che funzione e quali capacità avesse questa macchina, e noi: «Professore, taglia le putrelle grosse a 45 gradi», e finì lì. Un anno dopo, quando ebbe l’incarico di restaurare il Padiglione Italia, arrivò col progetto del grande soppalco e lo lavorammo tutto con quella macchina lì. Erano tutte putrelle, H e IPE da 180, tagliate col seghetto e con incastri maschio-femmina. In pratica lui, pensando alle possibilità di quella macchina, aveva impostato il lavoro in quel modo; adesso è andato un po’ perso, non si vede più, però sarebbe bello poterlo recuperare.

 

A.D.L. Prima del 1968 avevate già lavorato in Biennale?

F.Z. Con la Biennale sì, ci conoscevano già e ci chiamavano per lavori di manutenzione. Col professore siamo intervenuti in seguito.

 

A.D.L. Come è nato il vostro contatto con Carlo Scarpa?

F.Z. Ricordo che mio padre aveva conosciuto il professore attraverso Anfodillo, il falegname che lavorava con Scarpa; nei suoi lavori in legno c’erano anche delle parti metalliche, quindi il nostro laboratorio lavorava già indirettamente col professore. Penso che questo sia stato il nostro primo legame. Poi, nel tempo, prese a venire direttamente da noi. Prima del 1968 penso che mio padre abbia costruito assieme ad Anfodillo l’aula di Ca’ Foscari: c’erano molte parti in legno e delle parti metalliche di cui conserviamo ancora un modello di fusione. Questo [prende in mano un pezzo] era un altro elemento che andava applicato sopra per bloccare le ante. Fu molti anni prima che noi conoscessimo il professore. Mio padre costruì anche le parti metalliche dell’Aula Manlio Capitolo al Tribunale di Venezia e partecipò ad altri lavori che io non posso ricordare. I miei ricordi partono dal momento del negozio Olivetti perché vedevo il professore molto spesso qui da noi; da allora, gradualmente, abbiamo avuto contatti più ravvicinati per i lavori della Querini Stampalia, di casa Balboni, della Biennale e via via per tutti quelli che si sono susseguiti fino a quando è partito per il Giappone e non è più tornato.

 

A.D.L. Quando avete lavorato con lui per la mostra in Canada, a Montreal, come vi siete organizzati?

F.Z. Abbiamo sempre lavorato con il professore qui a Venezia. Anche quello fu un lavoro un po’ impegnativo; abbiamo lavorato collegati con Venini, con Anfodillo, coi marmisti. Eravamo tutti vicini a Venezia: noi qui, Anfodillo confinante con noi, Zennaro un po’ più avanti, De Luigi… Era un lavoro di collegamento tra noi, e credo che abbiamo fatto un buon lavoro. Ci sono ancora dei pezzi appesi lì in alto [indica], un quadrato della vetrata per esempio. Era lunga 12-13 metri e alta 4 o 5, fatta tutta di elementi smontabili: è stata montata qui, poi smontata e spedita. Poi avevamo fatto delle vetrine inclinate che avevano un piano di marmo, qui è rimasta la sagoma. Erano lavori complessi con ferri fresati. Avevamo comprato una macchina nuova quindi riuscivamo a fare le fresature; e lui lavorava con noi perché vedeva che grazie alle nostre macchine poteva elaborare maggiormente i suoi lavori e perché con queste macchine il lavoro diventava più preciso. Poi le cose sono state spedite in Canada e là le hanno rimontate; noi non siamo riusciti ad andare a vedere la mostra.

 

Paolo Zanon [P.Z.] Non è che le abbiamo spedite per nave: una parte è andata via in aereo e una parte l'ho portata io a Livorno con un camioncino per farla partire con un cargo. Avevo dei pezzi di De Luigi, avevo la calcina, avevo riempito tutto il furgone e siamo andati, io e mia moglie, a Livorno, abbiamo caricato tutto in nave e dopo siamo tornati indietro. E una parte invece... è andata che ci sono ancora là (indica nell'officina) due telai di una vetrata che aveva fatto Venini. Quella volta il professore si era fatto male, si era rotto un piede, quindi viaggiava in carega a rodè. Per via che si era rotto una caviglia era «rabbioso», diceva. Dopo si è fatto male ancora una volta, è caduto in cimitero: dietro alla chiesa c’era un muretto, lui deve essere scivolato perché aveva sempre le scarpe di cuoio e si è fratturato le costole; allora l’han portato all’ospedale di Vicenza e da lì mi ha chiamato perché doveva darmi dei disegni, non so di chi, in quel momento non ce la faceva neanche a respirare ma dopo se l’è cavata. La terza volta invece è stata fatale.

 

A.D.L. Insieme al padiglione di Montreal stava allestendo anche la mostra di Arturo Martini a Treviso, l’avete fatta voi?

Paolo Zanon No.

 

A.D.L. Aveva qualche assistente che lo aiutava?

F.Z. Qualche volta sì, per la casa Balboni ricordo che era con il geometra Zinnato, una persona fedele, perché col professore non è che ricevessero dei compensi. Però chi ha seguito il professore, anche se senza compenso, ha imparato e ancora adesso ha qualcosa in più rispetto ad altri professionisti che non lo hanno conosciuto. Non per portare su il professore ma è così.

 

A.D.L. Con chi altri che avete lavorato?

F.Z. Abbiamo avuto rapporti di lavoro con Arrigo Rudi, Guido Pietropoli, Sergio Los, Franca Semi, Gilda D’Agaro, Valeriano Pastor. Tutte persone con cui era molto bello lavorare e che hanno fatto anche lavori importanti. Quindi, chi ha avuto la costanza di seguire il professore, che non era facile perché non aveva orari (lavorava spesso fino all’una di notte e poi la mattina si svegliava tardi), – ha imparato molto. Anche noi, in tanti anni passati insieme – 25 anni, un quarto di vita –, abbiamo imparato a lavorare e ancora adesso ne traiamo dei benefici.

 

A.D.L. Dei prototipi che ha lì [indica] vedo il piedino dei tavoli dello IUAV?

F.Z. Sì, di questi tavoli progettati per lo IUAV ne abbiamo fatti centinaia, anche dopo la morte del professore; ne abbiamo realizzati tantissimi e i primi avevano questi tappini di legno fatti da un falegname tornitore; morto lui, li abbiamo fatti noi sempre in legno; però incidevano molto sul costo totale del tavolino, allora li abbiamo rifatti in teflon che è molto più economico. Questo [indica] è il piedino originale, è rimasto qui. Poi è venuto fuori un elemento del negozio Olivetti che andava sotto delle mensole: mi è venuto in mano solo di recente ma sono anni che era qui tra le cose del professore. Ultimamente sono andato al negozio Olivetti perché dobbiamo rimetterlo a posto, ho visto la mensola e mi è venuto in mente il pezzetto che andava sotto.

 

A.D.L. Quindi avete voi l’incarico di restaurare il negozio Olivetti?

F.Z. Sì, l’hanno già chiuso, adesso faranno l’impalcatura e lo metteremo a posto. Lo avevamo già restaurato con Giuseppe Davanzo una ventina di anni fa, poi è stato manomesso dagli ultimi inquilini ma ora è stato svuotato tutto e lo rimettiamo in ordine.

Questo [indica] invece è un pezzetto della scala della Banca Popolare di Verona, un elemento di congiunzione delle aste verticali, un bel pezzettino. Questo elemento è rimasto qui, altri più significativi li abbiamo dati al Museo di Monselice quindi chiunque li può vedere.

La Banca di Verona, come mole di lavoro, è stata ancora più impegnativa della tomba Brion. Abbiamo fatto tantissime cose, in particolare ricordo dei camini alti 16 metri: come copertura dei camini originari abbiamo fatto delle colonne un po’ particolari, saranno servite 10.000 viti! La difficoltà stava nel montarli almeno una volta prima di metterle in opera; siccome erano troppo alti per essere lavorati in verticale, li abbiamo montati in orizzontale in officina, due pezzi alla volta: montato un pezzo, tolto uno, rimontato l’altro, per essere sicuri di non trovare difficoltà sul posto.

 

A.D.L. Quindi li avete finiti a Venezia e poi trasportati con la barca.

F.Z. A Venezia li abbiamo caricati dalla barca al Tronchetto, dal Tronchetto alla gru, dalla gru al camion. La fatica di Venezia è questa.

 

A.D.L. Avete fatto anche i capitelli in foglia d’oro?

F.Z. No, la foglia d’oro è una lavorazione un po’ particolare, tutte le dorature dovevamo passarle a chi sa farle perché è oro zecchino quello lì, ha le sue proprietà… abbiamo un doratore molto bravo qui vicino.

 

A.D.L. Usavate sempre lo stesso doratore?

F.Z. C’era il doratore a foglia d’oro che lavorava come si fa sulle cornici antiche; poi c’era la doratura galvanica che è più semplice: si prendeva il pezzo, si copriva la parte da non dorare e si lasciava esposta solo la parte interessata, poi lo si immergeva attivando l’elettrolisi. Dopo diventava un lavoro un po’ complesso perché per rendere l’oro lucido bisognava tirare a specchio gli incavi usando delle macchinette coi feltri, preferivamo farlo noi per paura che si ammaccassero gli spigoli.

 

A.D.L. Ricorda lavorazioni particolari alla Banca Poplare?

Per la Banca Popolare di Verona abbiamo fatto le squadre inclinate di 3 gradi, o 1 grado e mezzo, perché per collegare il complesso nuovo a quello vecchio si era dovuto lavorare tutto fuori squadra. Ci siamo costruiti le squadre inclinate, una aperta e una chiusa. Questo [lo prende in mano] era il modello che si dava in fonderia, lo si fondeva tutto e poi veniva rettificato a mano, fresato, levigato… le fusioni venivano abbastanza belle ma serviva sempre rifinire a mano. Erano fusioni in bronzo perché il liquido scorre molto meglio.

 

A.D.L. Dove andavate a fare le fusioni?

F.Z. Avevamo un fonditore molto bravo fuori Spinea, in campagna. Al tempo ce n’erano anche un paio qui a Venezia (adesso sono spariti anche loro) ma facevano fusioni un po’ più leggere, più piccole. Per fusioni impegnative come queste si andava fuori; per fondere questo si doveva partire con dei crogioli grandi perché quando la fusione entra deve avere un peso che schiacci in tutte le direzioni; quando toglievano questo [il modello] restava un boccame pieno di fusione che faceva da peso.

 

ADL. Sceglievate voi i fornitori o era Scarpa a farlo?

F.Z. Noi. Poi Scarpa, per esempio dal doratore, passava anche personalmente, sapeva chi era e dov’era, a campo del Ghetto.

 

A.D.L. La Banca Popolare di Verona è stato uno degli ultimi lavori di Scarpa, è iniziato nel 1973 ed è andato avanti per qualche anno.

F.Z. Sì, i lavori sono andati avanti per diversi anni e in parallelo al cantiere del cimitero Brion. Erano lavori molto impegnativi. Ricordo la signora Brion lamentarsi del fatto che il professore non si facesse vedere più molto spesso in cimitero perché era impegnato con la Banca; diceva: «Qua non finisce più, e quando finiamo?». Anche noi eravamo molto impegnati, oltretutto avevamo anche altri clienti; la Banca ci ha portato via tanto tempo però siamo riusciti a portarla a termine, dopo la morte del professore, con l’architetto Rudi. Mentre il cimitero, dopo la morte del professore, è rimasto fermo: l’aveva completato quasi al 99 per cento ma dovevamo rifare degli elementi per la tomba dove è sepolto, dovevano esserci dei cerchi e una fontanella d’acqua.

 

A.D.L. Avete fatto voi il cilindro che ha disegnato Tobia?

F.Z. Il cilindro l’ho fatto io perché la tomba del professore non aveva neanche un vasetto di fiori e ho pensato: «Intanto facciamo qualcosa che a lui sarebbe piaciuta». Ha un taglio come piaceva a lui, un’asola rotonda… l’ho portato lì e penso che ci sia ancora.

 

A.D.L. Pensavo che lo avesse disegnato Tobia.

F.Z. No, il cilindro l’ho fatto io. Tobia ha impiegato del tempo per disegnare la lapide.

Ricordo l’ultimo incontro che abbiamo avuto col professore, deve essere stato un venerdì perché lui il sabato o la domenica doveva partire per Tokyo. Verso le 18-18.30 andammo con mio fratello in studio a villa Valmarana, ci sedemmo al grande tavolo che aveva e lui ci disse che al rientro avrebbe dovuto progettare un negozio della Rizzoli in piazza San Marco. Ci diede l’incarico di reperire sul mercato, come primo approccio, delle lamiere al titanio con cui voleva foderare le colonne del negozio. Voleva sapere i costi di questo materiale, avere un’idea di come si lavorava, se si poteva saldare, come si poteva trattare. Poi – lo ricordo molto bene – siamo passati a parlare della famosa goccia che non era riuscito a completare sulla tomba dei familiari. Voleva una goccia che bucasse il sasso nel tempo, però non una goccia normale, un semplice rubinettino, voleva una goccia grossa; allora discutemmo insieme di un elemento – dovrei avere ancora uno schizzetto. Io dissi: «Professore, se non vogliamo una goccia che venga giù direttamente la facciamo passare attraverso dei piccoli contenitori, come vasi comunicanti, e magari tra un passaggio e l’altro la goccia si ingrandisce e in ultimo sarà un goccione, speriamo…». «Che bella idea» disse lui, e con la biro verde disegnò in piccolo un elemento tagliato a 45 gradi con dentro tre bacinelle, i tre vasetti comunicanti che dovevano far crescere la goccia. Alla fine non è stato realizzato, il professore è partito per Tokyo e non è più tornato.

Per noi era come un familiare perché il nostro era diventato un rapporto a “tu per tu”. Era bello stare assieme, aveva una vastità di interessi, sapeva tutto dei materiali – dal legno al ferro, al marmo – e quando parlava era sempre piacevole ascoltarlo. Quando disegnava era ancora meglio, faceva delle punte alla matita lunghe così; e come usava i i colori: sembrava che avesse dei pennelli in mano perché faceva certi disegni in matita (in bianco e nero) e poi ci faceva le sfumature con il colore – rosso, giallo, blu, verde – anche per farci capire il materiale. A lui piacevano i colori, quando faceva fare le pitture a De Luigi, con cui ha recuperato l'uso dello stucco, erano sempre in due a discutere le tinte, il tipo di spatolato ecc. Per noi è conoscerlo e lavorare con lui è stata un’esperienza irripetibile, tanto che ancora adesso, a distanza di trent’anni, è ancora piacevole parlare di lui e sento tutti che ne parlano.

 

A.D.L. Ha conservato dei disegni del professore?

F.Z. Ne avevamo un bel numero; poi, 4 o 5 anni fa, su sua insistente richiesta li abbiamo dati ad Aldo Businaro insieme ai campioni.

 

A.D.L. I prototipi sono a Monselice, i disegni li abbiamo restaurati e sono conservati al Museo di Castelvecchio di Verona.

F.Z. Ecco, grazie agli archivi son stati restaurati; i nostri disegni erano un po’ rovinati perché ci lavoravamo sopra.

 

A.D.L. Tra i disegni ora a Castelvecchio ce n’è uno per l’Aula Magna dello IUAV. Oltre ai tavoli di cui ci ha parlato avete fatto anche l’Aula Magna? Si vede un sistema di tiranti metallici…

F.Z. Sì, ora mi sfugge perché forse l’ha seguito mio fratello, però so che abbiamo lavorato molto durante i restauri, ci ha fatto fare diversi lavori quando era professore e quando era rettore. L’ultimo lavoro che abbiamo portato a termine, ripreso da Sergio Los, è la parte metallica della chiusura ai Tolentini che abbiamo fatto in base a vecchi schizzi del professore.

 

A.D.L. E la tomba Galli?

F.Z. Mio fratello si ricorda di più. Quando il professore veniva qui, se c’ero io parlava con me, se c’era mio fratello parlava con lui, altrimenti parlava con mio padre; aveva capito che poteva parlare con chiunque, tra mio fratello, mio padre e me.

 

A.D.L. Si ricorda della Facoltà di Lettere e Filosofia a San Sebastiano?

F.Z. Sì, lì abbiamo fatto il portale e diverse altre cose.

 

A.D.L. L’aveva seguito lei?

F.Z. In parte sì, il lavoro ce lo dividevamo sempre fra noi, non è che io seguissi tutto un lavoro e mio fratello un altro. Mio fratello magari faceva le parti al tornio, mio padre quelle alla piallatrice e io assemblavo questi elementi che andavano inseriti in un telaio o in altri meccanismi.

 

A.D.L. Questi che prototipi sono? [indica gli oggetti sul tavolo]

F.Z. Questo qui è un capolavoro, è l’angolo dell’altare della Tomba Brion; lo si riconosce nelle fotografie, è nella parte frontale, a sinistra e a destra, e ha due angoli fatti in fusione e poi rettificati con la fresa, assemblati e montati su delle lamiere in corrispondenza di un canalino. Era un oggetto che completava l’altare, ne alleggeriva un po’ la massa. Siamo stati fortunati perché il primo altare era andato male; doveva essere fatto in getto lucido, Scarpa aveva già fatto fare il cassero, di specchio mi sembra, con il getto dentro. Aveva fatto gettare tutto l’altare in un'unica colatura ma quando tolsero la cassaforma il getto di cemento, che doveva essere a specchio, da una parte aveva delle macchie perché non essendo vibrato bene erano venuti in superficie i sassi. Allora lo fece distruggere e pensò che sarebbe venuto meglio in bronzo e l’abbiamo fatto di lamiera come è adesso.

 

A.D.L. L’avete fatto qui a Venezia e poi portato al cimitero…

F.Z. Sì, fatto qui e portato là. Ho fatto fare le fusioni, i rettificati, poi l’ho smontato e comunque non è un oggetto molto grande.

 

A.D.L. Se ho capito bene questi [indica il campione] sono i laterali dell’altare.

F.Z. Sì, i laterali dell’altare. Un destro e un sinistro, vediamo se riusciamo a capire… No, questo era l’angolo che alleggeriva la parte frontale dell’altare del cimitero. L’altare era tutto in lamiera di bronzo, da questo elemento partivano le lamiere sui lati e la lamiera frontale che era sagomata e incastrata dentro in modo che non si vedessero le viti. Il tutto era chiuso con piombo battuto e levigato. Una volta montato fuori si vedevano le punteggiature di piombo ma non le teste delle viti. È stato un bel lavoro; poi abbiamo collaborato alla riuscita del candelabro che non era semplice. Mio padre, per qualcosa del negozio dell’Olivetti, ha dovuto inventare un attrezzo perché la strumentazione di 50-55 anni fa non era tanto sofisticata. Noi per Venezia eravamo un’officina molto attrezzata: avevamo due torni, una fresa che aveva costruito mio padre, un seghetto automatico (rudimentale, però funzionava), una troncatrice fatta sempre da mio padre per alleggerire il lavoro più pesante. Al Negozio Olivetti, dove appoggiava il vetro ci doveva essere un incavo a 45 gradi, piccolino ma lungo 2 o 3 metri, e come si faceva a farlo? Mio padre inventò un attrezzo, spostammo il tornio in avanti e mise nel mandrino una fresa a 45 gradi che aveva costruito lui; non era automatica, servivano due persone dietro, due davanti, mio padre al tornio; i due dietro spingevano il pezzo e gli altri due davanti con le tenaglie tiravano per farlo avanzare piano piano a formare l’incavo. Però ogni volta che c’era una pausa rimaneva una gobbetta e allora dopo, con la lima a 45 gradi, abbiamo dovuto rettificare tutto, è stato un lavoro…

 

 

A.D.L. Se non sbaglio c’è un’altra chiesa che avete fatto voi, la chiesa del Torresino a Padova.

F.Z. Anche questa l’ha seguita mio fratello, è facile che lui si ricordi di più.

 

A.D.L. E questi altri due prototipi? [indica i campioni]

F.Z. Questi qui sono della Banca Popolare di Verona.

 

 

A.D.L. La scultura Crescita che ha fatto per il Padiglione della Biennale è stata difficile da realizzare?

F.Z. Difficile… una volta impostato il lavoro è sempre la macchina a farti raggiungere la perfezione. A mano sarebbe stato impossibile farla. La fresa, sapendola adoperare bene, ti porta a quella perfezione. È stato un lavoro lungo e impegnativo però, una volta pensato come, col professore siamo riusciti a farlo. Ho ancora due prototipi piccolini che avevamo fatto prima di procedere. C’era da lavorare perché il ferro è duro, servivano tanti passaggi per fare uno di quei gradini, la fresa sarà passata 5 o 6 volte perché toglie un millimetro alla volta.

[...]

Ci hanno chiesto di metterla a posto ma la scultura è stata fatta per essere montata non per essere disfatta, abbiamo fatto una fatica del diavolo a smontarla. È composta da due calotte attaccate assieme (che si separano togliendo i cubetti alle estremità di un perno orizzontale centrale), abbiamo dovuto togliere tutte le saldature interne, farle di nuovo pezzo per pezzo, rimettere a posto tutti gli spigoli, rifare la doratura e rimontarla. La parte a cubetti si alza e si stacca dalla base che a sua volta si stacca dal piano sottostante, sono tre elementi in tutto. Sulla base ci sono la firma del professore e un numero progressivo.

[...]

A casa ho tenuto l'originale, questa è una fotocopia a colori. C'è scritto «Una variante per me e per Gavina e per la Brion». Era una variante con, oltre alla doratura, delle punteggiature realizzate con inserti in piombo levigati a filo. Ne abbiamo messi solo tre: si faceva un buco di 5 mm di profondità, ci si metteva il piombo, lo si calcava, poi lo si levigava e veniva un cerchietto perfetto del diametro di 7-8 mm. Nel tempo, siccome il ferro prende una tinta ruggine e il piombo rimane grigio, diventa ancora più bella.

 

A.D.L. Oltre che alle sculture, avete lavorato a mobili, oggetti…?

F.Z. Nel periodo in cui il professore disegnava i mobili per Dino Gavina ne abbiamo fatti diversi. Del tavolo Doge noi abbiamo fatto solo il prototipo, che era diverso dal tavolo di adesso; l’avevamo fatto per casa Zentner; in seguito, quando lo hanno fatto di serie, hanno tolto certi particolari troppo impegnativi e costosi. Il nostro era un po’ diverso: il piano non era di vetro ma di legno tutto seghettato con l’ebano attorno, nel piano era incastrato una specie di rosone fatto con tanti legni composti in un disegno e sotto c’era la parte metallica molto somigliante a quella di adesso. Le zampette erano diverse, avevano delle “clessidre” che tenevano sospeso il piano, però nel complesso non è male neanche quello che hanno fatto recentemente. Il prototipo ce l’ha la famiglia Zentner.

 

A.D.L. Avete fatto altre cose per casa Zentner?

F.Z. Per casa Zentner abbiamo fatto questo elemento (la metà che manca è al Museo di Monselice): è il modello per fare la fusione di parte di una lampada che “nasceva” dal soffitto. Dalla lavorazione usciva solo la parte rossa che poi andava lavorata; dentro, al posto di quello che qui vediamo nero, andava il vetro della lampada.

 

A.D.L. L'attacco al soffitto era di gesso, voi avete fatto la parte di ferro da inserirci.

F.Z. Esatto. Veniva fuori questa fascia che girava attorno al vetro, era fatta in fusione e poi rettificata.

 

 

Paolo Zanon

 

A.D.L. Quando e come ha conosciuto il professore?

P.Z. L’ho conosciuto nel 1954. A Venezia il professore era in contatto con il falegname Anfodillo con cui aveva lavorato anche precedentemente. Un giorno mi chiamò mio padre: «Vai te!», e io sono andato. Il professore è rimasto un po’ perplesso, ha chiesto ad Anfodillo: «Ma, così giovane?». Poi mi ha spiegato una parte dei disegni dell’Aula Magna di Ca’ Foscari.

 

A.D.L. È stato il primo lavoro che ha fatto?

P.Z. Sì, io personalmente sì. Mio padre aveva già fatto dei lavori con lui prima, credo qualcosa dei lampadari per il Casinò del Lido che il professore stava facendo con Venini.

 

A.D.L. Forse aveva lavorato anche alla sede di Venini?

P.Z. No, solo negli anni ultimi abbiamo fatto un restauro per Venini.

 

A.D.L. Ha fatto dei viaggi col professore?

P.Z. Viaggi no, delle volte l’ho portato in macchina da Verona a Vicenza, ad Asolo, o da Asolo a Verona.

Con il professore si lavorava di giorno e di notte perché ogni volta, sia ad Asolo che a Vicenza, prima delle 2 o 3 di notte non si tornava a casa. E dopo, quando era in macchina per esempio, diceva «Adesso dormo», si metteva tranquillo e dopo due minuti dormiva.

 

A.D.L. Andavate a vedere i cantieri?

P.Z. Sì, perché lasciava sempre qualcosa in sospeso che mi spiegava sul posto.

 

A.D.L. Quei prototipi che ha lì sul banco cosa sono? [indica]

P.Z. Questo è di Ca’ Foscari, è la chiusura di un’imposta: era un po’ complicata, ad ogni modo siamo riusciti a farla, cose che adesso non sono più realizzabili.

 

A.D.L. È fatta di ottone e ferro?

P.Z. Ottone e ferro fresato. Questo pezzo andava avvitato nella parte esterna dell’imposta e serviva perché non si aprisse col vento. Questo invece è il modello della fusione per l’Aula Magna di Ca’ Foscari, che è stato fuso in ghisa forse perché erano già in ristrettezze. Questo elemento teneva fissati in alto i vari montanti del padiglione sull’acqua di Brion. Questo e le altre due sculture le abbiamo fatte per il suo padiglione alla Biennale del 1968. C’erano tre o quattro architetti fra cui Albini; per Scarpa abbiamo fatto sia la piattaforma, al centro della quale dopo lui si è ricavato un foro rettangolare, sia questa scultura.

 

A.D.L. La scultura Contafili.

P.Z. C’erano anche la scultura girevole (Crescita), l'Asta, delle sete di Asolo e tre gradini…

 

A.D.L. La scultura Erme, di tre marmi diversi.

P.Z. Erano esposte tutte assieme. Però la Biennale era iniziata mi sembra a giugno, mentre le sculture le ho portate credo gli ultimi 10 o 15 giorni perché lui iniziava i lavori sempre in ritardo, sempre! Ci faceva fare le notti alle Biennali, tornavamo a casa alle 3-4 della mattina, avevamo la barba lunga…

 

A.D.L. Sembra d’argento, di che materiale è fatta la scultura Contafili?

P.Z. È un ottone che si chiama “ottone da orologeria”, una lamiera speciale che si può lavorare senza che il truciolo diventi riccio come nelle altre lamiere d’ottone e che si toglie con più facilità. I piani sono argentati e il filetto è dorato.

 

A.D.L. Quindi è fatta in galvanica?

P.Z. È una galvanica speciale perché argentare e dorare senza scavalcare richiede un lavoro particolare. C’è uno a Padova che dora i calici per i preti ed è specializzato in questo tipo di lavoro.

 

A.D.L. È stata fatta prima la doratura o l’argentatura?

P.Z. Non lo so, le direi una bugia. Molto probabilmente devono argentare (o dorare), poi coprire le parti fatte e dorare. Anche le prime sculture a cubetti le abbiamo fatte in galvanica però siamo stati costretti, dove c’è il ferro, a isolare tutto. C’era anche un’altra questione: che in galvanica, se l’operatore lascia il pezzo a bagno 10 minuti o un quarto d’ora invece di 5 minuti, la soluzione mangia tutti gli spigoli, li corrode.

 

A.D.L. Quindi poi si dovevano riprendere.

P.Z. Sì, ma si vedeva. Per questo nelle ultime sculture abbiamo optato per la doratura a foglia d’oro, in questa maniera non roviniamo più gli spigoli. Viene meglio e penso che sia anche più duratura perché sotto la galvanica c’è ferro, invece qua c'è sempre ferro ma ha due o tre isolanti prima dell’applicazione della foglia d’oro.

 

A.D.L. Avete fatto anche le lettere per qualche opera?

P.Z. Abbiamo fatto delle lettere per la tomba Brion e, prima, per la Partigiana, dov’è c’è scritto «Venezia alla Partigiana».

 

A.D.L. Scarpa vi dava il disegno del lettering?

P.Z. Sì, il disegno delle lettere. Quelle della Partigiana erano in tondino di rame.

 

A.D.L. Avete fatto anche quelle della tomba Zilio?

P.Z. Abbiamo fatto la croce; le lettere erano fatte in marmo da Zennaro.

 

A.D.L. Vi dava il disegno al vero?

P.Z. Ci dava il disegno al vero e noi lo eseguivamo e lo mettevamo in opera. Anche le piastre su cui è stata poggiata la Partigiana sono lamiere di rame, da 3 o 4 mm di spessore e tutte avvitate.

 

A.D.L. Per la Banca Popolare di Verona avete fatto voi la sigla «bpv» disegnata da Scarpa?

P.Z. Forse, non mi ricordo… Mi ricordo come l’ha disegnata, con le tre lettere uguali che cambiano verso.

 

A.D.L. C’è anche una chiesa in cui avete lavorato, la chiesa del Torresino vicino Padova…

P.Z. Sì, abbiamo fatto l’altare.

 

A.D.L. Ci può raccontare qualche dettaglio di quest’altare?

P.Z. Di quell’altare abbiamo ancora un pezzo, quel pezzo quadrato sopra la bombola, vede? È quello che rimane della gamba dell’altare. È stato abbastanza laborioso come lavoro perché nell’angolo è stato fresato a 45 gradi, poi c'è stata inserita dentro una righetta di ottone su tutti e quattro i lati.

 

A.D.L. Cos’è che le piaceva di Carlo Scarpa?

P.Z. Era un tipo affabile. Quando andavo da lui, partiva col dire «Dobbiamo far questo», e io «Ma professore, costa massa». E allora nelle due o tre ore successive cambiava parere, cambiava totalmente il disegno e arrivavamo a quello che si doveva fare.

 

A.D.L. Cercava di conciliare le sue idee con gli aspetti pratici.

P.Z. Sì, come per la scala a chiocciola della Banca Popolare di Verona: abbiamo perso due giorni perché la voleva in una certa maniera ma non era fattibile, veniva a costare troppo; alla fine siamo riusciti a conciliare il progetto con l’esecuzione e a farla.

 

A.D.L. Nella vostra collezione, che adesso è al Museo di Castelvecchio, c’è il disegno di una scala a chiocciola per la casa di Michelangelo Muraro, se la ricorda?

P.Z. Sì, abbiamo fatto anche quella. Lui però ci ha seguito poco per quella scala, ci ha fatto il disegno e l’abbiamo eseguita.

 

A.D.L. Forse fu uno dei primi lavori?

P.Z. No, sarà stato dopo il 1965-1970. Muraro era il direttore della Ca’ D’Oro.

 

A.D.L. E a casa Scatturin avete fatto qualcosa?

P.Z. Sì, a casa Scatturin abbiamo fatto tutti gli interni e l’altana sopra le scale sempre in abbinata con Anfodillo.

 

A.D.L. Quindi anche arredi, mobili?

P.Z. Sì, tutto quello che era di metallo a partire dalle cerniere delle porte…

 

A.D.L. Le cerniere delle porte le disegnava personalmente Scarpa ?

P.Z. Sì.

 

A.D.L. Anche le maniglie?

P.Z. Le maniglie non tanto.

 

A.D.L. Che maniglie usavate?

P.Z. Quelle che c’erano in commercio. L’unica maniglia che abbiamo fatto differente era quella all'entrata della chiesa del cimitero Brion, che è stata portata via diverse volte e sempre rifatta. Adesso il custode la toglie e la mette. Al cimitero hanno rubato tanti pezzi, poi abbiamo trovato il sistema perché non riescano più a prenderli e da allora non è più successo.

 

A.D.L. In quali musei di Venezia avete lavorato?

P.Z. A Palazzo Grassi abbiamo fatto Vitalità nell’arte. Poi abbiamo fatto Venezia e Bisanzio e ci ha fatto lavorare anche il 2 giugno durante la festa.

 

A.D.L. Se lo ricorda ancora...

P.Z. Sì, perché il 2 giugno è anche il mio anniversario di matrimonio. Lui era così… Per esempio il supporto dell’Atys di Donatello per Montreal me l’ha disegnato in Fondamenta tra l'Istituto di Architettura e la stazione, camminando perché doveva prendere un treno per Genova.

 

A.D.L. E lei capiva…

P.Z. Sì, ormai c’era una specie di simbiosi; delle volte mi dava indicazioni per telefono, mi diceva «Fa’ così, fa’ colà», e noi riuscivamo sempre a farlo.

 

A.D.L. Oltre a voi c’erano altri fabbri?

P.Z. Prima del 1954 c’era un certo Bertoldini che deve aver fatto qualcosa al Padiglione del Venezuela perché aveva l’officina vicino alla Biennale, sono diversi anni che è morto.

 

A.D.L. Quando è stata l'ultima volta che ha visto il professore?

P.Z. Prima che partisse per il Giappone.

 

A.D.L. Era con suo fratello, eravate insieme?

P.Z. Sì, ci siamo salutati; c’era il marmista Morseletto e altri, erano in quattro o cinque.

 

A.D.L. Ha conosciuto delle personalità che lavoravano con Scarpa, come ad esempio Giuseppe Mazzariol?

P.Z. Lui l'ho conosciuto perché abbiamo fatto noi la porta scorrevole dell’Università che dirigeva Mazzariol, a San Sebastiano.

 

A.D.L. Era la Facoltà di Lettere e Filosofia, dove Giuseppe Mazzariol è stato docente e poi preside.

P.Z. Sì, c’era Mazzariol, c’era Guido Pietropoli...

 

A.D.L. ... che aiutava Scarpa come assistente.

P.Z. Sì, ne aveva sempre: ad Asolo ha avuto Sergio Los, a Verona Arrigo Rudi… lui aveva l’idea, dopo gli assistenti la conoscevano, si parlava con loro.

 

A.D.L. Queste lavorazioni – con l’oro, l’argento, la fresatura, la galvanica – era Scarpa a dire come le voleva, aveva già le idee chiare?

P.Z. Sì.

 

A.D.L. Voi davate dei suggerimenti?

P.Z. Se lui voleva qualcosa che non era possibile fare davamo dei suggerimenti, e allora lui ci seguiva, si adattava alle nostre proposte che a volte servivano a semplificare un po’ il lavoro senza cambiare il risultato. Ecco un altro aneddoto: una volta, un giorno o due prima della vigilia di Natale, doveva incontrare la signora Brion per regalarle il Crocifisso, quello che era ad Asolo (perché ne aveva fatti fare due). Allora mi fece fare una base per sostenerlo; Anfodillo fece dei pezzi di legno e sotto, tra il metallo e il legno, Scarpa voleva un pezzo d’avorio; disse «Sono andato a Genova però non l’ho trovato», perché voleva una palla da biliardo. Allora si è presentato qui con una zanna di elefante e pur di fare gli anelli l'abbiamo tagliata. Poi è andato via contento. Ha sacrificato la zanna per questi due anelli, che forse se prendevamo un osso di mucca era lo stesso.

 

A.D.L. Ha conosciuto Aldo Businaro?

P.Z. Sì, abbiamo lavorato anche a casa sua. Abbiamo fatto i cancelli e diverse altre cose.

 

A.D.L. Tra Aldo Businaro e Carlo Scarpa com’erano i rapporti?

P.Z. Erano amici. Una volta che dovevano andare assieme in Spagna, Businaro e il professore con la Nini, per fare un presente a Scarpa che ci teneva a questo viaggio, Businaro si presentò con una Rolls Royce. Quello che gliel'aveva noleggiata gli aveva detto «Guarda che se si accende questo bottone rosso dovete fermarvi e chiamare l’assistenza»; appena sono partiti si è acceso subito il bottone rosso... Alla fine però l’hanno messa a posto e sono andati via.

 

Sfogliando il volume Carlo Scarpa. Atlante delle architetture (Venezia 2006) Paolo Zanon riconosce altri lavori in cui sono intervenuti, ad esempio il Masieri Memorial – « abbiamo fatto la base delle colonne e i tiranti superiori» >– e il monumento commemorativo di Brescia]:

 

P.Z. L'abbiamo restaurato perché tutti si siedono sopra le aste orizzontali del dissuasore che, essendo solo di legno, si erano incurvate. Allora abbiamo tolto gli elementi in legno e ci abbiamo inserito dentro una specie di putrelletta di ferro.

 

ADL. Il dettaglio superiore dei montanti in che cosa è fatto?

P.Z. Bronzo e acciaio inossidabile. Di questo non ci è rimasto niente in officina.